“Il mio Godard” di Michel Hazanavicius: il libretto sbiadito
Nel 1967 la vita e la carriera del grande cineasta Jean-Luc Godard sono ad un punto di svolta. Il regista sta girando La cinese, il suo film più politico fino a quel momento, e si innamora di Anne Wiazewsky, di vent’anni più giovane di lui, nipote dello scrittore premio Nobel François Mauriac, studentessa di filosofia che è stata attrice per Robert Bresson in Au hasard, Balthazar. Anne ama ed ammira Godard, che la ricambia mostrandole tutto il suo trasporto e facendola recitare ne La cinese. L’insuccesso del film e gli eventi del ’68 spingono Jean-Luc sempre più lontano dal cinema tradizionale e aumentano la sua contiguità con il movimento studentesco e il suo desiderio di un maggiore impegno politico che passi anche attraverso una nuova concezione della settima arte.
Le Redoutable (questo il titolo originale della pellicola) prende spunto dai due libri autobiografici che la Wiazemsky ha dedicato alla sua relazione con Godard: Une année studieuse, dal quale il film attinge solo alcuni momenti, e Un an après, che racconta la crisi del regista durante gli anni della contestazione, la sua radicalizzazione politica e la dissoluzione del loro matrimonio. Presentato in concorso, con eccesso di generosità, all’ultimo Festival di Cannes, Il mio Godard rivela fin dalle prime battute il suo obiettivo principale: raccontare una storia d’amore tra un artista geniale e bizzarro, irriverente e autoironico, tormentato e perciò crudele e destinato a scontrarsi con tutte le persone a lui più vicine, e la sua giovane e devotissima consorte. Il Jean-Luc di Michel Hazanavicius, regista premio Oscar per The Artist, è un uomo maturo che si rende conto di essere ad un bivio della sua esistenza e vorrebbe che la sua amata ed il suo entourage corrispondessero in tutto e per tutto questo suo sentimento che invece si vede costretto a coltivare in solitudine. La parte “privata” del film, grazie anche ad una buona alchimia tra un sorprendente Louis Garrel e ad una brava Stacy Martin, funziona piuttosto bene, dando vita a più di un momento riuscito e ad alcune parentesi divertite e divertenti: Hazanavicius sceglie un’estetica pop facendo di Godard una sorta di icona e sforzandosi di imitare (o meglio, scimmiottare) il suo stile, come si vede dalle scene casalinghe tra Garrel e la Martin, dalle sequenze iniziali in cui assistiamo alle riprese de La cinese, dal vezzo di intercalare la narrazione mostrando delle didascalie-slogan, come era solito fare il maestro della Nouvelle Vague.
La musica cambia totalmente quando Hazanavicius fa irrompere nel suo racconto il contesto storico-politico: le sequenze della manifestazioni di piazza sono filmate con approssimazione e sembrano un po’ tutte uguali, risultando alla fine stucchevoli, così come i personaggi di contorno sono totalmente privi di spessore (su tutti spicca, in negativo, la coppia di amici impersonata da Bérénice Bejo, moglie del regista, e Micha Lescot), quasi che il regista si sia dimenticato di scriverli. L’impressione, per non dire la certezza, è che Hazanavicius descriva un momento storico che per motivi anagrafici non può aver vissuto (è nato nel 1967) ma che non sembra neppure essersi preoccupato di studiare. Infatti, la rappresentazione di quegli eventi, tra cortei e riunioni nelle aule occupate, appare rozza e superficiale, viziata da un occhio che tradisce una concezione ideologica che è allo stesso tempo completamente estranea e palesemente ostile a quel mondo e a quella temperie culturale. Per questa ragione, con una descrizione talmente sommaria da sfiorare la reazione, gli studenti e gli operai che nel ’68 riempirono le piazze chiedendo una società diversa sono descritti, in buona sostanza, come dei ragazzi rozzi e velleitari, violenti e ignoranti (esemplare, in questo senso, la conversazione in un bar su Dziga Vertov e il “cineocchio”) mentre allo stesso Godard viene messa in bocca una discutibile affermazione antisemita, peraltro subissata dai fischi. Per non parlare, inoltre, della sequenza che dovrebbe raccontare l’interruzione dell’edizione 1968 del Festival di Cannes, raccontata dall’interno della villa di un gollista e conclusasi con la sequenza grottesca di un viaggio in auto in cui l’idea godardiana del cinema come arte al servizio di una causa politica viene sostanzialmente confutata dalla voce dell’uomo “semplice”, l’autista che afferma placidamente che vedere un film è anche un “modo per distendersi”. E che dire, infine, della pessima parentesi del viaggio in Italia (vera e propria caduta di stile), in cui il personaggio di Bernardo Bertolucci compare solo per essere insultato mentre Marco Ferreri viene rappresentato con l’aspetto di un contadino caciarone con indosso una salopette di jeans?
Questo sbilanciamento, unito alla percezione di un Hazanavicius “fuori posto” in questa narrazione, fanno sì dunque che il sentimento finale che resta impresso nella mente dello spettatore all’uscita della sala è che il regista conosca veramente di Godard solo quanto appreso dal libro di Anne Wiazewsky quasi che il mettere l’accento sulla dimensione privata potesse esimerlo dall’importanza di un approfondimento storico. E questo, in un’epoca che stava facendo proprio lo slogan “Il personale è politico”, è il limite cruciale ed imperdonabile di un film che ha forse dalla sua parte la capacità di suscitare curiosità verso uno degli autori cruciali della storia del cinema e verso le sue opere. Nella speranza, beninteso, che lo si faccia con maggiore complessità ed attenzione.
©RIPRODUZIONE RISERVATA – Ne è consentita esclusivamente una riproduzione parziale con citazione della fonte, Milena Edizioni o www.rivistamilena.it