Torino 35, “Mary Shelley” di Haifaa Al-Mansour: tutti i battiti del loro cuore
Mary Shelley racconta la storia di Mary Godwin – autrice di Frankenstein, uno dei più famosi romanzi gotici della letteratura mondiale – e la sua tempestosa relazione con il celebre poeta romantico Percy Bysshe Shelley. I due giovani sono degli outsider rispetto alla società politica del tempo ma condividono lo stesso credo progressista, la fede in idee che vanno oltre i limiti del proprio tempo. Mary e Percy si dichiarano il loro amore, ma il fatto che Percy abbia già una moglie e una figlia li costringe a scappare, accompagnati da Claire Clairmont, sorellastra di Mary. In un momento di grande tensione nel loro rapporto, durante il soggiorno nella villa di George Byron a Ginevra, Mary concepisce l’idea di Frankenstein, che nasce come scommessa tra Mary, Shelley, Byron e John Polidori su chi avrebbe scritto la migliore storia di fantasmi.
Mary Shelley è l’esordio mainstream di Haifaa Al-Mansour, regista nata in Arabia Saudita che si era ben segnalata con La bicicletta verde e che ora ha a disposizione grandi mezzi produttivi per realizzare un film che descrive la temperie del cosiddetto “secondo Romanticismo inglese” che vide protagonisti, oltre a Shelley, Mary Goodwin e Lord Byron, anche John Keats. C’è da dire subito che, nell’affrontare la genesi di Frankenstein o il moderno Prometeo, pubblicato dalla giovanissima figlia del grande filosofo William Goodwin, teorico dell’anarchismo, e di Mary Wollstonecraft, esemplare figura di protofemminista, autrice di A Vindication of the Rights of Woman, la regista e la sua sceneggiatrice non appaiono animate da un particolare scrupolo filologico e, vista la destinazione del progetto che punta al grande pubblico, tendono alla semplificazione storica e narrativa con relativo appiattimento di alcuni personaggi. In questo senso, per una descrizione maggiormente fedele e artisticamente eccellente di quel periodo, il consiglio è andare a rivedere o recuperare lo splendido Bright Star di Jane Campion, che racconta la triste storia di John Keats e la sua relazione amorosa con Fanny Brawne.
In particolare, se il ritratto di William Goodwin appare credibile e tutto sommato centrato, molti dubbi lascia l’immagine che il film fornisce di Byron, del quale si privilegia l’aspetto diabolico e dongiovannesco senza concedere nulla alla grandezza del suo talento e alla sincerità del suo afflato libertario che lo portò a combattere, anche fisicamente, per la difesa del popolo greco contro l’impero ottomano. Così come falsa appare l’accusa di plagio mossa all’autore di Don Juan per la pubblicazione a suo nome del Vampyre di Polidori. E’ infatti acclarato che il poeta smentì subito l’erronea attribuzione del testo, scritto invece dal suo medico e segretario. E che dire infine dell’errore marchiano sul nome del celeberrimo dipinto “The Nightmare” (che si può osservare qui a lato), opera del pittore tedesco Johann Heinrich Füssli qui chiamato, con imperdonabile approssimazione, Henry Fuseli.
Quindi, fatte queste necessarie premesse, c’è però da dire che Mary Shelley è un film che non manca di meriti e di un suo fascino: esso ha al suo attivo una confezione lussuosa e impeccabile, una buona prestazione degli attori (su tutti una bravissima Elle Fanning, perfettamente a suo agio nel ruolo), più di un momento di grande emozione e struggente romanticismo, la capacità di ragionare su conformismo e trasgressione travalicando i confini dell’epoca in cui è ambientato, la sagace demitizzazione dell’immagine di questi grandi poeti e polemisti che lanciavano invettive contro il Potere che soffoca la libertà dei singoli ma si dimostravano a loro volta legati a filo doppio ai loro editori nel discriminare le donne.
Interessante appare, inoltre, la descrizione del rapporto tra biografia e creazione artistica. Mary vive un grande senso di colpa perché sente di essere la causa, naturalmente involontaria, della morte di sua madre, deceduta dieci giorni dopo averla data alla luce e, allo stesso modo, ella stessa perde la sua prima figlia di pochi mesi a causa di una febbre. La presenza della morte sembra dunque accompagnare la scrittrice nei tratti più salienti della sua esistenza influenzando quindi – questa la tesi del film – la nascita di un’opera in cui un uomo, il dottor Frankenstein, si dimostra capace di riportare in vita i defunti. Allo stesso modo, la Creatura creata e poi rifiutata dal dottore a causa della sua “mostruosità”, e per questo condannata alla solitudine, diventa immagine del destino cui vanno incontro Mary e la sua sorellastra Claire Clairmont, vittime dell’orgoglio maschile, rappresentato dall’egocentrismo di Percy Bysshe Shelley e dalla fatuità del cinico e spregevole George Gordon Byron.
Per questa ragione, con questo film Haifaa Al-Mansour finisce inevitabilmente per alludere alla condizione del suo Paese di nascita dove la vita delle donne è ancora sottoposta a grandi condizionamenti e rende il film capace di dialogare proficuamente con il presente.
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