“Monsieur Verdoux” di Charlie Chaplin: vita avventurosa di un piccolo imprenditore del crimine
“Possa Dio aver pietà della sua anima”
“E perché no? Dopotutto, è roba sua”
da Monsieur Verdoux
Si è molto discusso sul passaggio di Charlie Chaplin al sonoro, sulla diversa qualità dei suoi film parlati rispetto a quelli del muto, sulla necessaria e inevitabile differenza estetica tra le opere che mettevano in scena il personaggio del tramp, il famoso Vagabondo con bastone e bombetta, e quelle della maturità e della vecchiaia. Con l’avvento del cinema sonoro, Charlot progressivamente scompare per far posto ad un signore dai modi cortesi e affabili e dall’atteggiamento distinto, ma purtuttavia sempre pronto ad assecondare improvvisi ed esilaranti guizzi di buffoneria e a regalare al pubblico altri indimenticabili momenti di comicità. Basterebbe citare, a titolo esemplificativo, il “piccolo anarchico” in Un re a New York (1957), penultimo film di colui che George Bernard Shaw definì “l’unico genio che il cinema abbia mai avuto”. In questa sequenza giustamente famosa, il re del titolo veniva arringato da un bambino a dir poco sui generis che discettava contro il dispotismo delle leggi ed il potere politico, rimproverando il monarca quando, vedendogli leggere Il Capitale di Karl Marx, questi gli chiedeva se fosse comunista. “Bisogna essere comunisti per leggere Marx?” era la pronta ed acuta risposta del precoce intellettuale, evidente riferimento autobiografico (almeno per quanto concerne il tema) relativo all’esilio dagli Stati Uniti cui Chaplin era stato condannato perché sospettato di essere “di sinistra”.
Abbiamo richiamato questa scena proprio perché, secondo la nostra opinione, al di là delle oggettive differenze, esiste un profondo legame tematico che unisce i capolavori del muto, come La febbre dell’oro (1925) e Luci della città (1931), ed un film in apparenza così diverso e meravigliosamente ambiguo come Monsieur Verdoux, ed è costituito proprio dalla centralità del capitale come molla che domina, ed in larga misura determina, le esistenze e le azioni dei personaggi. La necessità insistente, incombente, irrinunciabile di denaro è la grande tensione sotterranea che scorre come un fiume carsico sotto la superficie apparentemente ilare, leggera e talvolta consolatoria dei film di Chaplin. Come si ricorderà, il denaro è infatti l’unico mezzo attraverso il quale ne La febbre dell’oro il Vagabondo può guadagnarsi il rispetto e scalare i gradini della società, ed è anche l’unico strumento che, in Luci della città, consente alla povera fioraia di riacquistare la vista. Così, in Monsieur Verdoux, acuta, grottesca, divertentissima ma allo stesso tempo acerrima e dolorosa satira sugli anni della Grande Depressione, i rapporti umani sono ancora una volta più che mai dominati dal denaro e dalla lotta per la sopravvivenza che esso innesca, inducendo gli uomini al compimento di azioni basse e miserabili pur di restare a galla.
La vicenda di Barbablù, uxoricida seriale, è la provocazione estrema che l’autore (di nazionalità britannica, e che non volle mai diventare cittadino americano) lancia agli Stati Uniti delle speculazioni finanziarie, del puritanesimo sessuale ipocrita e ottuso, della caccia alle streghe, della corsa agli armamenti, della bomba atomica. Travolto da uno scandalo sentimentale (le accuse di Joan Barry, una giovane donna che affermava di essere stata sedotta e abbandonata), braccato dalla Commissione per le Attività antiamericane, sotto accusa per il suo matrimonio con Oona O’Neill, la figlia del celebre drammaturgo Eugene più giovane di lui di ben trentasei anni, Chaplin sta sperimentando sulla sua pelle cosa significhi essere il capro espiatorio di un intero Paese, che già allora sentiva costantemente sotto attacco i suoi valori, prima ancora che il suo territorio.
In questo senso, Verdoux è l’emblema perfetto dell’uomo medio americano che, rovinato dalla crisi del ’29, decide di compiere il suo estremo gesto di rivolta. Tranquillo e anonimo impiegato di banca fino agli anni della Grande Depressione e licenziato dopo trent’anni di onorato servizio, Verdoux assapora la disperazione e il fallimento, oltre che la perdita della dignità, e ha per di più una moglie invalida ed un figlio piccolo da mantenere. Così, questo piccolo baluardo della società americana e dell’American way of life, si trasforma in un mostro, in una creatura sordida e amorale per il quale “il delitto è solo una questione di affari” e che, una volta catturato, ammette come sua unica colpa quella di non aver capito che “il crimine al dettaglio non rende. Un omicidio è delinquenza, un milione eroismo”. A coloro che lo processano, Verdoux risponde di essere, nei tempi in cui viviamo, tutto sommato un dilettante e minaccia: “A ben rivederci. E presto, molto presto” facendo così comparire forse per la prima volta sul volto di Charlot un pauroso ghigno, una smorfia diabolica e inquietante.
Per questa ragione, sebbene ricchissimo di momenti di comicità di grana anche molto buona che spesso sconfina addirittura nella farsa (gli impagabili duetti con Ritabella Bonheur/Martha Raye che Verdoux non riesce mai ad uccidere, e con la sua serva, gli equivoci della doppia bottiglia), Monsieur Verdoux è un’opera che, molto più delle precedenti, risulta intrisa di malinconia, e si pone come la radiografia di una società in cui non v’è spazio per alcuna catarsi, un racconto che si chiude sempre più se stesso, refrattario a qualsiasi spiraglio di luce. La religione è irrisa, la famiglia è sì il focolare in cui Verdoux si ritira dopo il suo “lavoro” ma è anche il legame necessario ed il “set” dei suoi uxoricidi, e persino la ragazza traviata, salvata dal “mostro” che si commuove dinanzi alla sua sorte, finirà per arricchirsi sposando un fabbricante d’armi (“quello sì, un mestiere sempre redditizio”) così vanificando, o se non altro immiserendo, persino quell’unico gesto di pietà e compassione.
Film crepuscolare, raggelante nel suo cinismo, si conclude lasciando allo spettatore il ricordo di un momento di radicale tristezza quello che André Bazin definiva “un breve secondo, un secondo folgorante che il cinema non dimenticherà mai: sul viso di Charlot passa la volontà di morire”.
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