Happyish, infelici e contenti
Un motto speranzoso recita “l’intelligenza paga”, invitando a credere che qualità di idee, coraggio e innovazione vengano sempre premiate. È un peccato che questo discorso sembri escludere le produzioni televisive, premiando con infiniti rinnovi le scazzottate e i piagnistei di Arrow (per citarne uno), mentre serial promettenti e corrosivi scivolano nel limbo dopo una sola stagione.
Tratto comune in queste perle trascurate sono di certo l’ironia, il disincanto e/o l’eccentricità, tutti peccati che non sempre camminano insieme, ma che si uniscono a fare da fondamento alla meteoritica season one di Happyish.
Uscito nel 2015, il serial della Showtime si mostra esplicito negli intenti sin dalla propria immagine-copertina: un trio familiare che corre spensierato in un prato tenendosi per mano, nella migliore tradizione pubblicitaria, solo che alle spalle, tra farfalle e unicorni incombe un enorme fungo atomico. Il trailer di presentazione non è da meno, affidandosi al volto corrucciato del protagonista Thom Payne/Steve Coogan, alle sue considerazioni al cianuro sull’esistenza e lo spietato, apodittico medio alzato che sigla il tutto.
Proprio il contrasto inconciliabile tra vita desiderata e vita reale, esasperato dal mondo a tinte pastello della pubblicità, fa da sfondo al quotidiano della famiglia Payne, trio di nevrotici insoddisfatti, impegnati ognuno a suo modo a fare i conti col bene più diffuso al mondo: la stupidità.
Per il capofamiglia Thom la depressione è il risultato dei suoi bilanci di uomo, marito e pubblicitario scontento, aggiungendo alla crisi di mezza età anche il cambiamento di rotta della sua agenzia, nella quale la dirigenza impone dei nuovissimi direttori creativi, stranieri, rampanti, super-giovani e dallo slang astruso e demenziale. Lo sguardo scettico di Payne è quello dell’inglese Steve Coogan, un Billy Crystal inacidito già doppiatore dello show satirico Spitting Image oltre che interprete di numerosi film, scelto per sostituire il ruolo di Philip Seymour Hoffman, la cui prematura scomparsa ha limitato a girare solo a un pilot della serie.
Nel tritacarne delle considerazioni del personaggio, sempre colorate da un linguaggio fuori dai denti, c’è il mito della new economy, il suo effimero olimpo di plastica e i suoi eroi (Steve Jobs su tutti). Non si salva la religione, la politica, l’amore, la-vita-in-campagna-col-lavoro-in-città. Nei monologhi che fanno da introduzione allo show il triste declino di una prostata invecchiata è più sincero di mille dottrine consolatorie e il cinismo di chi vende immagine a una società impazzita si beffeggia da sé nell’ostentazione del proprio delirio.
Come si fa a non ridere amaro quando un creativo imbecille definisce Al-Qaeda un “brand di successo” o reputa la tragedia delle Torri gemelle un “evento fighissimo”? Al tempo stesso scorre un brivido lungo la schiena pensando che esiste davvero un mondo così misero da ruotare intorno al culto del marketing e il suo gergo esoterico da iniziati. Le strategie assurde del duo di direttori svedesi hanno poco di geniale e molto di truffaldino, mentre la loro diversità rimarca l’appartenenza ad una generazione altra, con la quale uno smagato quarantenne come Thom trova impossibile comunicare.
Dunque saranno più alieni lui e i suoi amici alternativi quando fumano spinelli di nascosto nel gelo della veranda, o i nuovi sacerdoti della comunicazione senza memoria né scrupoli?
Orgogliosamente e disperatamente aliena è certo la moglie pittrice Kathryn Hahn, che fuori dal suo eremo artistico si scontra con i fulgidi esempi di stupidità umana che la circondano, dall’ottuso impiegato postale, alla burocrate scolastica. Confronto riassunto a dovere da ”Starring Sigmund Freud, Charles Bukowski and Seven Billion Assholes“, uno degli esilaranti titoli delle 10 puntate che si presentano come veri manifesti programmatici, chiamando in causa scrittori e figure storiche (vedi “Starring Vladimir Nabokov, Hyppocrates and God”), senza trascurare nemmeno l’Altissimo al quale l’autore dello script, Shalom Auslander, non dimentica di fare le pulci nella migliore tradizione dello humour nero ebraico.
La presa in giro del caramelloso immaginario degli spot ci fa assistere a incubi del protagonista in cui folletti cartoon si sparano in testa, mentre Thom copula con un’anziana gnoma in un’apoteosi iconoclasta, così come l’ottimismo stucchevole dei musical è fatto a pezzi da un siparietto della Hahn, in cui la donna inneggia gioiosa alla bellezza delle pillole antidepressive, le uniche dispensatrici di felicità che conosca.
Tutto questo è materiale evidentemente troppo indigesto per sopravvivere a se stesso, per cui ne abbiamo registrato l’inevitabile necrologio con la chiusura avvenuta nel giugno 2015. I risultati tiepidi di pubblico e critica parlano chiaro: nella nostra società ci sono argomenti troppo sensibili per essere toccati. Passi pure la religione, ma consumismo, illusioni e pubblicità, per carità no, con quelli si va sul sacrilego.