Berlinale 2018, fischi in sala per gli “idioti” di Philip Gröning

Quasi ad ogni Concorso c’è il film-choc (talvolta ce n’è anche più d’uno), quello che genera reazioni scomposte e turbolente sia durante la proiezione che al termine di essa, finendo subissato dai fischi o da indisciplinati “buuuu” di disapprovazione, almeno da parte di coloro che riescono ad arrivare fino ai titoli di coda. Infatti, nel film oggetto di questo contributo, una grossa fetta di addetti ai lavori ha preferito abbandonare la sala, peraltro in maniera tutt’altro che silenziosa, ben prima della conclusione della pellicola. Spesso queste opere “scandalose” o sgradite trovano sparuti, strenui difensori che, quasi per opporsi con maggiore forza al nutrito stuolo di detrattori, sono pronti a gridare al capolavoro, rimproverando gli altri di superficialità e scarsa attenzione, talvolta insinuando che costoro non siano dotati di grande capacità di discernimento.

Quest’anno, quando il Concorso di questa 68° Berlinale è quasi arrivato alla conclusione (mancano ancora quattro titoli all’appello sui diciannove che si contendono l’Orso d’oro), questo singolare destino sembra sia toccato a My Brother’s Name is Robert and He is an Idiot diretto da Philip Gröning, uno dei registi di punta di una cinematografia, quella tedesca, assai avara di grandi talenti (e Gröning è tra l’altro un autore quasi sessantenne). La vicenda ruota attorna ad una coppia di adolescenti, fratello e sorella legati da un rapporto incestuoso, che trascorre un weekend in campagna alla vigilia dell”esame di filosofia che Elena, la ragazza, dovrà sostenere il lunedì seguente. Robert e sua sorella alternano lo studio dei testi che serviranno per l’esame con visite ad una sperduta stazione di servizio e qualche nuotata nel lago. I due hanno inoltre fatto una scommessa: Elena proverà ad avere un rapporto sessuale entro lunedì. Se ci riuscirà, Robert dovrà esprimere un desiderio (esclusi gli oggetti), altrimenti il ragazzo diventerà proprietario della BMW di famiglia.

Il filo narrativo del film, sottile e chiaramente pretestuoso, è l’occasione per il regista per mettere in scena un singolare coming-of-age e di discutere sull’essenza della vita, sull’essere e il tempo, attraverso le citazioni di alcuni grandi filosofi del passato, primo tra tutti ovviamente (dato il tema) Martin Heidegger, del cui fondamentale Sein und Zeit, uno dei capisaldi dell’esistenzialismo, vengono riportati ampi stralci. Per almeno due terzi del racconto, ci troviamo immersi dentro una natura incontaminata in cui due giovan ragazzi discutono stralci di Agostino d’Ippona, Herni Bergson, Franz Brentano. Gröning dirige i due bravissimi protagonisti con grande maestria, riuscendo spesso nella difficile impresa di fornire un’immagine plastica dei concetti sviscerati nel corso della narrazione, solo apparentemente astrusi, dimostrando un’ottima padronanza del mezzo cinematografico, unita ad un una conoscenza minuziosa e tutt’altro che scolastica del patrimonio filosofico citato. I due consaguinei sono palesemente degli outsider: presto si capisce che la loro adesione a quel pensiero è superficiale ed epidermica mostrandosi come un ennesimo ed estremo mezzo di porsi in alterità rispetto al resto del mondo. Gröning gioca abilmente con la luce alternando inquadrature che danno risalto alla location agreste trovata a Baden-Württemberg, ai confini con la Svizzera e la Francia, ad altri momenti in cui vengono utilizzate luci notturne, quasi psichedeliche, e inserendo talvolta delle immagini in cui si riconosce la grana della pellicola.

Purtroppo, l’impianto costruito nei primi due terzi del film lascia spazio, nell’ultimo segmento, quello più narrativo, ad una costruzione più farraginosa che svela la programmaticità di fondo di tutta l’operazione. I due ragazzi eleggono il loro domicilio all’interno della stazione di servizio, prendendo in ostaggio il gestore e richiudendosi all’interno di quello spazio chiuso senza che una vera motivazione lo giustifichi. La regia si fa più piatta e meno incisiva, con più di uno sbandamento e una certa prolissità (il film dura 174 minuti, non tutti indispensabili), e il film scivola in maniera troppo farraginosa. Alla riflessione filosofica sembra subentrare una discutibile volontà di “épater le bourgeois” (come se bastasse mostrare in un certo modo il sesso e la violenza per scioccare spettatori ormai sempre più smaliziati) in cui l’esistenzialismo heideggeriano e la riflessione sulle tre convenzionali categorie del tempo (passato, presente e futuro) vengono soppiantati da un nichilismo che appare stucchevole e poco coerente con quanto il film era andato narrando fino a quel momento. Insomma, Dostoevskij, Nietzsche e l’atto gratuito gidiano intervengono improvvisamente, convocati un po’ a forza e senza il dovuto supporto.

In conclusione, il disordine dell’adolescenza viene fondato troppo programmaticamente sulle categorie di Natura, Tempo, Amore e Morte dove la descrizione accurata delle prime due viene bruscamente fatta confluire nelle seconde, stabilendo una sorta di necessità che appare oltremodo forzata, e che sembra frutto più di una deliberata voglia di provocare lo spettatore che di lucida e attenta riflessione. Per questa ragione, My Brother’s Name is Robert and He is an Idiot, in termini di messinscena, può essere guardato come uno dei punti più alti raggiunti da un Concorso di qualità media ma rischia di risultare, almeno in parte, una grossa occasione sprecata.

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