“Gioia e rivoluzione”, il mito tragico della modernità in bocca a tutti
Le emergenze civili e politiche di alcuni paesi finiscono spesso dentro la simbolistica propagandista della politica. Aristotele ha scritto che “Gli inferiori si ribellano per essere uguali e gli uguali per poter essere superiori. È questo lo stato d’animo da cui nascono le rivoluzioni”.
Chiapas, Nigeria, Ucraina, Siria, Brasile, Egitto, Grecia. In ordine sparso, solo alcuni dei luoghi dove negli ultimi tempi è comparsa spesso la parola rivoluzione. E si potrebbe continuare, in esplorazione di altrove più o meno celebri. I paesi e le regioni citate palpitano di tragedia per diverse ragioni, ma tutti sotto la stessa lente di ingrandimento. Nessuno sa come sono andate veramente le cose, nessuno può fornire con certezza la più attendibile unità di misura dei torti e delle ragioni, a tal punto da aver smarrito pure la definizione delle parti. In certi momenti la divisione delle parti riconduce la distinzione più antica del genere umano. Gli approfittatori e i soccombenti. Ma non è su questo che sia possibile soffermarsi.
Piuttosto, pare che il giornalismo sia intenzionato a tenersi a debita distanza, omologando un qualche genere di registro di cronaca integrato dai soliti commentari di sorta, onde assicurarsi la gran reserva dell’informazione dentro un prontuario di luoghi comuni. Pure per chi ha visitato, se non addirittura vissuto, uno di questi luoghi, non è possibile lasciare che una certa premura della sensibilità resti a lungo inascoltata. Ma anche darle ascolto, riparati nella suddetta debita distanza, ridimensiona in misure minime il netto disponibile al ragguaglio della dignità. Siamo ricolmi di opinioni sulla soglia, saturi di riflessioni circostanziate, invitati, nostro malgrado, al banchetto delle ingannevoli partecipazioni. E che paradosso che ci sia voluto un dittatore per ricordare che “la rivoluzione non è un pranzo di gala”.
Anche se in questa sconfinata incertezza, qualcosa di approssimativo riesce sempre a sfuggire alla carcerazione dell’arbitrio risolutivo. L’indottrinamento generale deve assistere all’archiviazione dei fatti e delle conseguenze. Pure i drammi in fieri vengono in qualche maniera rinchiusi dentro il loro luogo di avvenimenti. L’intorno storico vi si aggira senza penetrarvi. È la regola dell’insiemistica storica. E quel che più inquieta è la tendenza a convivere con le spinte e le emergenze altrui, che alle civiltà privilegiate servono per esercitare il loro colonialismo morale. Finisce tutto nell’inascoltato. Del resto, fateci caso, le strategie di controllo percorrono sempre le vie dell’esibizione, fornendo mezzi illusori della partecipazione, dove è sempre possibile prima di tutto anteporre la propria faccia nel bel mezzo dello strumento utilizzato. Si verifica la strumentalizzazione del dolore, attraverso la messa a punto di un ingranaggio che meccanizza le pulsioni della vanità.
Il carisma originale non esiste più. Ormai ci sono soltanto dei burocrati dell’emozione che riciclano il detto e lo stradetto in frequenti rielaborazioni di slogan e di citazioni. L’inventio vive di surrogati retorici. A questo punto sarebbe doveroso iniziare a dubitare di certe forme di sollecitazioni, laddove l’incitamento all’insorgenza non è la maturazione di un’urgenza, ma l’anticipazione ambigua di quelle che saranno le nuove desistenze. Il potere ha imparato a compiere uno strano prodigio. Brucia le impellenze ancora prima di averle introdotte. Una maniera molto efficace di scoraggiare ogni forma di reazione. E questo meccanismo divampa fino alle scale maggiori della civiltà. “L’utopia di un secolo spesso diventa l’idea volgare del secolo seguente”, ha scritto Carlo Dossi. E allora, forse, c’è un secolo che, sfuggendo alle convenzioni della cronologia, ancora dura, piantato a predicare e a mitragliare in degli altrove dove c’è ancora differenza tra “chi sa leggere e chi non sa leggere”, mentre un altro secolo, ingioiellato come una dama di corte, prendendo parte a un pranzo di gala, con convivialità parla di cambiamento e di rivoluzione, quella cosa che in fondo, come insegna qualcuno, viene sempre fatta da chi non l’ha voluta, e senza invito a pranzo.
Scusandomi per l’eccesso, vado oltre. Una confidenza. Una volta, in Brasile, discutendo con un contadino a proposito dei mali del mio paese, con avventatezza mi soffermai sull’ipotesi che solo una rivoluzione avrebbe potuto cambiare le cose. Lui mi guardò con gli occhi pieni di paura. Allora io feci silenzio e cambiai discorso. Ogni volta che un senso del tutto personale della desolazione apre le porte allo sconforto, mi viene in mente quel momento e allora capisco che forse viviamo un tempo che ha stabilito una regola. Se “sai leggere” e desideri la rivoluzione, il primo passo è quello di ammettere il tuo fallimento, perché l’unica speranza sa rigenerarsi solo in quel desiderio. Il successivo, se si ha la forza di considerarlo, è quello di rassegnarsi al fatto che la rivoluzione è un demone in consegna agli unici meritevoli di un paradiso.