“Voglio la testa di Garcia” di Sam Peckinpah: per non dimenticare di baciare le donne
Reduce dallo splendido ma sfortunato Pat Garrett and Billy the KId (1973), maciullato dai tagli dei produttori (sì, anche le grandi pellicole della storia del cinema hanno conosciuto il loro personale genocidio), Sam Peckinpah, cineasta eccentrico e solitario, dal carattere difficile ma dotato di sicuro talento, cade in una profonda crisi depressiva. Va a vivere in una roulotte, rifiuta il cibo, dimagrisce pericolosamente e si imbottisce di pillole e vodka. Si salva grazie all’aiuto e all’assistenza dell’amico Max Evans e della segretaria esecutiva ed amante Katy Haber.
Rimesso in sesto, “Bloody Sam”, come lo soprannominavano i suoi amici, si rimette al lavoro e gira il suo film forse più personale e ingiustamente sottovalutato, forse l’unico sul quale abbia avuto un controllo total: Voglio la testa di Garcia (Bring me the Head of Alfredo Garcia). Il film è ambientato in Messico, Paese che per Peckinpah costituirà sempre una sorta di seconda patria, il luogo ideale dove rifugiarsi come fanno Doc McCoy e la moglie Carol (Steve McQueen e Ali McGraw) nel finale di Getaway (1972). In un’intervista a “Playboy” del 1972 il regista dichiarava: “Se piaci a un messicano, quello ti tocca. È diretto, reale. In Messico, a differenza che negli Stati Uniti, non si preoccupano troppo di salvare l’umanità ma gli uomini non dimenticano mai di baciare le loro donne e di annaffiare le piante”.
La storia del film sembra fatta apposta per respingere lo spettatore: la giovane figlia di El Jefe, un ricco capitalista messicano, è rimasta incinta di un certo Alfredo Garcia. Il padre offre un milione di pesos a chiunque tagli letteralmente la testa dal collo di Garcia e gliela porti. Al fazendero non importa che l’uomo sia morto, come si scopre di lì a poco: egli vuole comunque la testa del seduttore. Due killer si mettono sulle tracce di Garcia e si imbattono nel pianista fallito Bennie (la meravigliosa maschera di Warren Oates, attore amatissimo dal regista) cui promettono diecimila dollari in cambio del suo interessamento alla faccenda. Ad aiutare Bennie c’è la prostituta Elita, cui Bennie fa una proposta di matrimonio.
Il film mette in scena così una sorta di macabra caccia al tesoro, e l’inseguimento del bizzarro trofeo diventa potente metafora dell’inconscia ricerca umana della Morte, ricerca tanto più parossistica e paradossale perché trae il suo motore dalla Vita, cioè dalla creatura che si trova nel grembo della figlia di El Jefe. La testa di Alfredo Garcia diventa così una sorta di feticcio, un Graal privo di sacralità. In un articolo di poco posteriore all’uscita del film, enrico ghezzi lo paragona addirittura al falcone maltese ricercato da Humphrey Bogart nel leggendario film di John Huston, al tesoro di Vera Cruz di The Big Steal (1949) del grande Don Siegel, al Winchester 73 dell’omonima pellicola di Anthony Mann.
Opera diseguale e visionaria, volutamente sgradevole ed eccessiva, Voglio la testa di Garcia è un film meravigliosamente sbilanciato ed eccentrico, che ha nel Bennie di Oates coi suoi occhialoni scuri l’ennesima memorabile figura peckinpahiana di antieroe malinconico, di cowboy post-litteram (il film è ambientato in epoca moderna), di personaggio dis-integrato e fuori della Storia, apparentemente avido e disincantato ma impregnato di romanticismo e dignità, il cui viaggio di iniziazione lo porta a scoprire, come buona parte dei personaggi del vecchio Sam, che l’unica forma accettabile di pacifismo è il coraggio.
©RIPRODUZIONE RISERVATA – Ne è consentita esclusivamente una riproduzione parziale con citazione della fonte, Milena Edizioni o www.rivistamilena.it