Dante Maggio, anarchia e rigore di un grande caratterista
Sedici figli e l’inizio del Novecento. Tra questi, sette seguono le orme paterne. La famiglia Maggio resta tra quelle che maggiormente hanno contribuito allo sviluppo di quel grande sistema di recitazione che è stato il teatro e il cinema napoletani in tutto il Ventesimo secolo. Dei sette fratelli (Icario, Pupella, Rosalia, Dante, Enzo, Beniamino e Margherita) che decidono di fare lo stesso mestiere del padre, Domenico, detto “Mimì”, storico capocomico del teatro napoletano, Dante Maggio è tra i più attivi e ispirati.
Prima di affermarsi come attore, rivela un carattere impulsivo che gli costa addirittura un periodo trascorso in riformatorio. In giovanissima età fa il gelataio, lo strillone, il falegname, prima di finire a fare l’attrezzista per la compagnia del padre. Il teatro di quegli anni non fa sconti. Esseri figli di un importante capocomico non significa poter accedere alla notorietà senza farsi le ossa come chiunque decida di intraprendere una strada che esige rigore e sacrifici. Dopo la gavetta col padre Mimì nella compagnia Maggio Coruzzolo Ciaramella, inizia a recitare con Raffaele Viviani.
Quando il suo volto compare insieme a quello di Maria Annina Laganà Pappacena, passata alla storia col nome d’arte Anna Fougez, Dante Maggio consolida la sua figura di attore, naturalmente predisposta ai registri dell’avanspettacolo e dello sketch, che Dante inscena anche col fratello Beniamino e con Carlo Dapporto. Da Viviani a La carretta dei comici curata da Peppino De Filippo, la partecipazione di Dante Maggio è garanzia di un’arte recitativa che, come sostenuto anche dalla critica e dalla saggistica, non è frutto di uno studio teatrale (un’anomalia che pochi possono permettersi in quegli anni, nonostante il teatro napoletano e siciliano si affidino anche all’aspetto spontaneo del talento), ma in una veste da fine dicitore e da grande improvvisatore.
Dante Maggio è un attore per certi versi anarchico, ma in perfetta armonia con gli impianti attoriali che ben lo accolgono come spalla indipendente, autonoma, purissima, come ogni “attore comodino” che si rispetti. Assente soltanto Pupella, i fratelli Maggio si trovano tutti riuniti in scena in una sola occasione, tra il 1956 e il 1957, in Girandola di successi, antologia viva dei loro sketch più celebri e apprezzati.
L’attore napoletano già dall’immediato dopoguerra viene considerato uno tra i maggiori caratteristi del cinema italiano. Al termine della sua carriera, la sua filmografia sarà vastissima. Trentacinque anni di pellicole, dal 1940 al 1974. Lavora con Eduardo, Zampa, Bragaglia, Leone, Fellini, Risi, Lattuada, Soldati e molti altri importanti registi italiani. Di fatto, Dante vive e contribuisce alla storia del cinema italiano del Novecento. Dal gendarme interpretato nel Pinocchio di Giannetto Guardone, al “Capitano” di Operazione San Gennaro, il suo volto si presta a parti brevi e meno brevi. Fa da primario e da gregario dalla nobile e orgogliosa manovalanza, come i grandi caratteristi che non ci sono più.
Occhi accesi, che nel nerissimo delle pellicole in bianco e nero brillavano nella sua espressività allegra e inquieta, in grado di parlare anche stando in silenzio. Innumerevoli i momenti in cui Dante Maggio ha saputo dare parola alle scene. Polemico, ironico, meno inquadrabile rispetto ai canoni disciplinari delle produzioni cinematografiche e teatrali, ma altrettanto votato al sacro zelo e al rigore artistico.
La sorella Rosalia, un’altra attrice di grande talento, ne ha testimoniato il disagio, confessando quanto il fratello soffrisse quel teatro affollato da presunti attori poco disposti al sacrificio imposto anche a chi avrebbe potuto giovarsi di canali preferenziali. Essere figli d’arte, anche di importanti e autorevoli esponenti del teatro, comportava una doppia dose di severità. L’anarchia artistica di Dante Maggio è stata tale tanto nell’indomabilità del suo personaggio, quanto nel rispetto della regola prima di ogni grande artista. L’arte come religione. Finito Dante Maggio, non se ne fanno più. Sarebbe giusto se il suo nome non fosse dimenticato. Il suo volto lo merita, un volto che ne ricorda molti altri.