Venezia 75, giorno 3, ‘The Other Side of the Wind’, ovvero O come Orson
Il più grande film incompiuto della storia del cinema. Il film perduto. Il film maledetto, come l’altrettanto celebre Don Quijote, del quale esiste, tra le altre, una discutibilissima versione realizzata da Jess Franco. Sono tanti gli aggettivi, le definizioni e le etichette che si potrebbero applicare (e sprecare, nel senso letterale del termine) su The Other Side of the Wind, l’opera cui Orson Welles lavorò a partire dagli anni ’70 e che alla sua morte, nel 1985, era ben lungi dall’essere terminata. Vent’anni dopo il suo esilio artistico in Europa, uno dei più grandi enfants terribles di Hollywood decide di tornare in patria per realizzare quella che, nelle sue intenzioni, doveva essere una sorta di film-testamento, tanto che ancora molti anni dopo si parla di The Other Side of the Wind come dell’8 1/2 del “cittadino” Welles. Il protagonista è infatti un anziano regista, J.J. “Jake” Hannaford, che torna a Los Angeles dopo molti anni per realizzare un film che, nelle intenzioni, dovrebbe essere allo stesso tempo una satira della New Hollywood che stava ormai soppiantando lo studio system e una parodia dei film d’autore europei, primi fra tutti Zabriskie Point di Michelangelo Antonioni e Model Shop di Jacques Demy che le immagini del “film nel film” (che si intitola appunto The Other Side of the Wind) sembrano esplicitamente occhieggiare e mettere alla berlina.
Per realizzare il suo obiettivo, Welles si circondò di alcuni protagonisti della Hollywood del tempo: John Huston, cui Welles assegna il ruolo di Hannaford che aveva inizialmente pensato per sé, il fedele amico Peter Bogdanovich e Susan Strasberg, oltre alla compagna di vita, la croata Oja Kodar, che recita – o, per meglio dire, si aggira nella pellicola – senza veli in quasi tutte le scene che la vedono coinvolta, e la cui raggiante bellezza la rendono una presenza ipnotica e straordinariamente sensuale. Il film ruota attorno alla festa per il settantesimo compleanno di Hannaford e alterna immagini del party in onore del regista, per lo più in bianco e nero sebbene non manchino inserti a colori, con la visione del girato del film in lavorazione, dove domina il colore. Hannaford deve fronteggiare le critiche dei suoi collaboratori, l’atmosfera di tensione che circola sul set e gli attacchi di una critica cinematografica, Julie Rich, personaggio modellato su Pauline Kael, celebre e temutissima firma del “New Yorker”. Sempre a caccia di finanziamenti, Welles trovò un’inaspettata sponda nel cognato dello Scià di Persia finché, in seguito alla rivoluzione khomeinista del 1979, il conseguente rovesciamento politico determinò il definitivo arenarsi del progetto. A nulla valse il tentativo del regista di chiedere finanziamenti direttamente a Hollywood dove era stato invitato per ricevere, nel 1984, il Directors Guild of America, prestigioso premio alla carriera. Durante il memorabile discorso di ringraziamento, Welles rifiutò ogni ipocrisia dichiarando che alzava il calice insieme a tutti i colleghi presenti per brindare con loro, sebbene – aggiunse – “ci troviamo seduti su due sponde opposte del fiume“. Fallita anche questa possibilità, Welles tentò di recuperare i rulli del film, che si trovavano custoditi a Parigi, all’interno di un istituto di cultura iraniana. Al termine di una lunga querelle giudiziaria, un giudice francese sancì che i diritti del film erano di proprietà esclusiva del produttore, non dell’artista.
Quando finalmente nel 2017 il girato tornò a disposizione degli amici di Welles, costoro si vennero a trovare di fronte all’impresa titanica di dare ordine e forma alle circa novantasei ore di girato, compito reso ancora più complesso dal fatto che The Other Side of the Wind venne concepito sin dall’inizio come un’opera ibrida, mista, a metà strada tra il documentario e il film di finzione. Nell’accostarsi quindi alla visione del film sarà necessario intraprendere il famoso gioco del bicchiere mezzo pieno/mezzo vuoto. Nel primo caso, non si può non esultare per il fatto di avere avuto finalmente la possibilità di vedere il film grazie alla supervisione del fidato Peter Bogdanovich (“Se mi accade qualcosa, voglio che tu mi prometta che finirai il film. Sei l’unico di cui mi fido“, disse Welles all’amico, mentore e maestro riconosciuto dell’autore de L’ultimo spettacolo), e l’impegno dei produttori Frank Marshall e Filip Jan Rymsza che affidarono il montaggio a Bob Murawski, premio Oscar per The Hurt Locker di Kathryn Bigelow. Nel secondo caso, è evidente che, anche tenendo conto della consultazione degli appunti sul film lasciati da Welles e delle memorie di Frank Marshall, ci si trova davanti ad un tradimento, in quanto è noto come l’autore di Quarto potere fosse solito apportare continue variazioni al suo lavoro, ed è altrettanto risaputo che per Welles il film si faceva soprattutto al montaggio. “Il montaggio è il film” soleva spesso ripetere ai suoi collaboratori. C’è poi da aggiungere che il regista conservava i pezzi del suo lavoro in una maniera estremamente disordinata.
Quello che ci siamo trovati davanti è quindi un’opera dall’andamento convulso e frenetico (almeno per quanto concerne le sequenze della festa), un magma di immagini estremamente caotico, in cui i personaggi, inquadrati quasi sempre in primissimo piano, pronunciano battute in rapida successione e dove non sempre si riesce a cogliere il ruolo e la funzione di ognuno di essi, del vario e vasto bestiario umano che circonda Hannaford. Il pensiero di chi scrive è andato ad alcune delle opere corali di Robert Altman, in particolare quelle più tarde, prima tra tutti Prêt-à-Porter, con quella sua rappresentazione di un mondo eccitato e vacuo, sul quale sembra incombere una catastrofe imminente. Nel tentativo di mettere in scena il mondo di Hollywood, inoltre, il pensiero va naturalmente a The Player, in cui Altman compiva un vero e proprio saccheggio nei confronti della Mecca del cinema.
Il “film nel film” mette invece in scena una sorta di inseguimento amoroso tra un ragazzo e una ragazza, con immagini dal gusto pop e una forte predominanza dell’elemento erotico. Si assiste infatti a più di un congresso carnale, tra cui una splendida sequenza di sette minuti, girata da Welles in persona, che si svolge all’interno di un’autovettura, e dove è ancora una volta il montaggio a fare la differenza e a scandire il perfetto dinamismo delle immagini. Come si può capire, e come lo stesso Welles ebbe a dichiarare in un’intervista rilasciata nel corso della lavorazione del film, The Other Side of the Wind si presenta come un’opera libera e aperta, una resa dei conti contro il sistema che lo aveva emarginato ma dove le armi caustiche dell’ironia e della satira vengono preferite ai toni aspri dell’invettiva rancorosa.
Per un’opera del genere sarà inutile scomodare i sistemi più classici di analisi e di giudizio. The Other Side of the Wind è arte anche perché è epopea e martirio, ed è anche, se non soprattutto, un grande gesto di amicizia verso un mentore e maestro, un atto d’amore verso il cinema e chi ne è stato uno dei massimi protagonisti e artefici. E torniamo all’inizio. Incompiuto. Incompleto. Perduto. Maledetto. Non è questo che conta ora: due ore di brandelli di The Other Side of the Wind sono passate davanti ai nostri occhi. Il film, o quel che ne abbiamo, appartiene ora anche a chi ha potuto vederlo, a chi lo vedrà quando verrà trasmesso su Netflix, probabilmente disponibile per il download quando sarà passato un po’ di tempo. Un’opera così forse andrebbe vista tenendo bene in mente una delle più belle dichiarazioni di Welles: “Nasciamo soli, viviamo soli e moriamo soli. Solo attraverso il nostro amore e la nostra amicizia possiamo creare l’illusione che, almeno per qualche momento, non siamo soli“. Non possiamo dunque che alzare il calice verso di te, Orson, che dal 1985 sei seduto sulla sponda opposta a quella in cui è assiepata la maggioranza.
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