Venezia 75 giorno 8, Steve Bannon e Anders Breivik: essi vivono
Essi vivono. Essi sono ormai tra noi. E stanno guadagnando sempre più spazio fino a scaccairci via. Che compiano una strage assecondando la loro lucida follia come Anders Behring Breivik, l’autore del massacro sull’isola norvegese di Utøya il 22 luglio del 2011 (sessantanove vittime più altre otto causate da una bomba piazzata dall’attentatore poche ore prima nel quartiere Regjeringskvartalet, al centro di Oslo), oppure, come Steve Bannon, elaborino complesse strategie di controllo del sistema e di manipolazione di massa portando alla presidenza degli Stati Uniti il ben poco rassicurante Donald Trump, la loro nefasta influenza sul mondo odierno è ormai innegabile. Ma mentre Breivik, le cui folli gesta sono state oggetto dell’ottimo film 22 July, di Paul Greengrass, presentato stamattina alla stampa, era sostanzialmente un cane sciolto, una persona dissociata e isolata dal mondo contro le cui azioni presero le distanze persino coloro che condividevano le sue idee fondate sulla lotta all’immigrazione e la difesa della razza, Bannon è riuscito a infiltrarsi dentro i gangli di un Paese diviso e smarrito, sempre più bisognoso di un nemico da odiare, per scatenare una vera e propria offensiva contro quello che egli definisce l’establishment o l’élite. Propagandando i suoi ideali populisti fatti di difesa dei confini, suprematismo e protezionismo economico, egli è riuscito a presentare il candidato alla Casa Bianca, poi sorprendentemente eletto come Presidente, come colui che avrebbe difeso gli ideali dei poveri e dei diseredati, riattivato le fabbriche dismesse oramai coperte di ruggine, protetto gli interessi della classe lavoratrice mettendo fine a fenomeni come la delocalizzazione delle aziende nazionali. Suoi due dei più famosi slogan di Trump: “America first!” e “Make America great again“.
Nel suo American Dharma, film strepitoso presentato Fuori Concorso, il grande documentarista statunitense Errol Morris (autore anche di due altri celebri “ritratti” di uomini di potere, Robert McNamara intervistato in The Fog of War, e Donald Rumsfeld, protagonista di The Unknown Known) estrae 95 minuti dalle circa sedici ore di conversazione con Bannon ponendogli alcune domande tese a fargli illustrare la sua visione del mondo, il suo background culturale, i suoi attuali rapporti con Trump dopo la rottura avvenuta nel mese di agosto dello scorso anno. Ottimo affabulatore che ostenta la massima sicurezza nello sviscerare le sue idee, culturalmente preparato (è stato anche produttore e regista cinematografico), Bannon descrive il modo in cui il cinema classico statunitense è diventato parte integrante della sua conoscenza del mondo. Opere come Cielo di fuoco di Henry King, Furia infernale e Sentieri selvaggi di John Ford, Falstaff di Orson Welles, Il Ponte sul Fiume Kwai di David Lean o Orizzonti di gloria di Stanley Kubrick hanno profondamente influenzato la sua metodologia, soprattutto per quanto concerne la creazione del consenso, la capacità di prevedere le mosse dell’avversario e adottare le tempestive risposte. Politicamente schierato dall’altra parte della barricata rispetto al suo interlocutore, il settantenne regista di Hewlett lo lascia a briglia sciolta in modo che lo spettatore possa comprenderne, al contempo, tutta la sottile intelligenza ma anche la pericolosità alternando spezzoni di film, immagini tratte dalla realtà e pagine e pagine di alcuni siti Internet considerati molto influenti. Ne viene fuori un complesso puzzle che finisce per trasformarsi in un’opera pre-apocalittica che descrive in maniera perfetta le nuove, sempre più invasive e spietate strategie di consenso e il ruolo predominante assunto da Internet e dall’utilizzo dei social network nell’ultima campagna per le presidenziali americane.
I motivi che hanno spinto Morris a investigare il pensiero politico di un personaggio controverso e discutibile come Bannon sono dovute alla profonda paura della diffusione del suo credo all’interno del fragile tessuto sociale americano. Morris mostra in che modo Bannon si inserisce nella realtà e la modifica, la plasma, la reinventa attraverso strumenti come il sito di estrema destra “Breibart News” fondato dal giornalista conservatore Andrew Breitbart e preso in consegna da Bannon nel 2012, dopo la morte del suo creatore. All’avanguardia per la diffusione di fake news oltre che di contenuti misogini, xenofobi e razzisti, “Breitbart News” è diventato il principale sito di riferimento dei sostenitori di Trump, il luogo virtuale dove scambiare idee, diffondere messaggi propagandistici, lanciare insulti agli avversari politici. Opera importantissima, American Dharma è un perfetto specchio del presente, un modo per capire la direzione che la tecnocrazia digitale sta facendo prendere alla realtà, presentata da imbonitori astuti e privi di scrupoli come totalmente piatta e priva di complessità al punto che un molestatore seriale può diventare Presidente degli Stati Uniti con il voto e l’appoggio di molte donne perché anche “gli altri” (nella fattispecie, Bill Clinton) compivano le medesime cose senza però fare alcuna promessa di miglioramento per la vita delle classi meno abbienti, schiacciate da una globalizzazione sempre più spietata. Abile a sfuggire ad alcune domande incalzanti che Morris cerca di porgli durante l’intervento (“come si può essere contro l’élite e sostenere un evasore fiscale?” “Non è crudele bandire in maniera indiscriminata tutti gli abitanti di ben sette Stati?“, “Che rapporto c’è tra l’incitazione al razzismo e l’aumento di posti di lavoro?“), intellettualmente disonesto come tutti i populisti, Bannon si sottrae quando messo in un angolo e riesce quasi sempre a prendere il sopravvento e a dominare la scena. Le sue parole, alternate con le immagini dei recenti scontri di Charlottesville durante una manifestazione dell’estrema destra, o con citazioni del Paradise Lost di John Milton (“Meglio regnare nell’inferno, che servire in paradiso” dice Satana in persona, e Bannon è prontissimo a sottoscrivere questo assunto), e il senso che le sottende (in alcuni punti non dissimile da quello di Breivik), rendono American Dharma un inquietante film dell’orrore, un ritratto agghiacciante dell’odio che serpeggia in una società sempre più disgregata e polarizzata, dove la democrazia cosiddetta analogica fatica sempre più a mantenere un suo spazio, stretta dentro le maglie del totalitarismo della Rete, in cui il tweet selvaggio ha ormai assunto lo status di verità assoluta, spodestando la riflessione approfondita e qualsiasi sistema complesso. Film straordinario.
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