Intervista a Mux, autore del concept elettronico ‘Playing 4 time’: “La scelta più rivoluzionaria è godere del tempo”

Playing 4 time, prodotto dalla casa discografica Elastica, è il titolo del nuovo album del musicista napoletano Gian Paolo Fioretti, conosciuto anche con lo pseudonimo di Mux. Awake, Sunrise Spring, Test of heart ed Evening Tide intitolano rispettivamente le quattro tracce che compongono il concept elettronico a cura di Mux, che in precedenza è uscito con Artificialscape, invece prodotto dalla Hashetic Front Records. Gian Paolo Fioretti è un producer/beatmaker e fa parte del duo elettronico/drum&bass Ear Injury con cui nei suoi primi anni di musicista ha collaborato con artisti quali Marcello Coleman, Oyoshe, GanjaFarm Cru, Jah Free e Mahom Dub, suonando, inoltre, in storici locali italiano, partecipando al Meeting del Mare e al Mess.App. Coast Festival e aprendo i concerti di artisti come i Club Dogo e i Motel Connection.

Le sperimentazioni presenti nell’album di Mux si sviluppano in una sequenza musicale che affida la narrazione del giorno, dall’alba alla notte, a un Ep breve nella lunghezza temporale, ma profondamente evocativo, probabilmente anche alla compressione temporale che caratterizza la durata delle tracce. Playing 4 time alterna elementi elettronici a fasi ambient in cui emerge un sotto impianto di archi e campionature strumentali. Si potrebbe ipotizzare che Playing 4 time sia un album “accenno”, compiuto sì, ma con una segreta porta di servizio da cui in futuro potrebbe uscire qualcosa di più articolato. L’elettronica di Mux, probabilmente, con Playing 4 time rifiuta elementi aggressivi e procede secondo sussurri che annunciano un percorso, un sentiero tracciato dal sorgere di quel giorno le cui luci schiudono, accendono e sospendono il loro potere agli occhi dell’autore.

Che cosa ha avvicinato Mux alla sperimentazione elettronica?

Innanzitutto vorrei ringraziare Rivista Milena per l’interesse e lo spazio concessomi. La cosa che mi ha avvicinato e incuriosito alla sperimentazione elettronica e dell’elettronica in toto è stata la curiosità e la libertà compositiva tipica di questo mondo, oltre che a incontri fortunati che mi hanno introdotto a questo linguaggio. Sicuramente un’esperienze molto importante e formativa è stata frequentare il corso di Musica Elettronica del Conservatorio “D. Cimarosa” di Avellino.

Perché Playing 4 time? Il titolo e l’opera rispondono a un’esigenza e a ragioni specifiche?

Il lavoro nasce dall’analisi del rapporto che oggi ognuno di noi ha con il tempo a propria disposizione. Sebbene il tempo sia la dimensione nella quale si concepisce e si misura il trascorrere degli eventi, dunque una misurazione oggettiva/universale, contemporaneamente è una percezione soggettiva e strettamente personale che varia da persona a persona. “Prendendo tempo” è la traduzione più fedele del titolo dell’EP, ed è un invito all’ascoltatore a riappropriarsi del proprio tempo in contrasto con la frenetica società odierna, nella quale vige il culto dell’immediatezza, che spinge sempre più l’individuo a divenire automa manovrato dai propri impegni e dalle proprie angosce. La scelta più rivoluzionaria diventa quella di tornare a godere il significato più profondo di ogni frammento di tempo che abbiamo a disposizione.

Le tracce di Playing 4 time non citano direttamente l’uomo. Dai quattro titoli l’uomo si percepisce scomparso. Ci sono, invece, delle ispirazioni “umane”?

La risposta si coglie anche in quanto già detto precedentemente. Il “tempo” tradizionale non esisterebbe senza l’uomo, cioè chi lo percepisce, determinandone la misura. L’Ep, infatti, vorrebbe ricreare una giornata qualunque che va dal risveglio (Awake) sino a notte inoltrata (Evening Tide), dove l’uomo vive senza condizionamenti il proprio quotidiano.

Nell’album precedente, Artificialscape, i contenuti erano stati ispirati dai tuoi viaggi in Europa, Asia e Africa. In particolare in Polonia, giusto? Che legame c’è tra quella produzione e Playing 4 time?

Sì, l’idea di ‘Artificialscape’ nacque al ritorno da Cracovia e potrei dire che il fil rouge che lega i due lavori, oltre alla tecnica compositiva, è lo spirito di osservazione che li ha fatti nascere; cioè la voglia di voler trasformare delle percezioni e delle esperienze strettamente personali in musica.

In alcuni frammenti del nuovo album si avvertono nitidamente presenze “melodiche”, di strumenti, per capirci, “estranei” all’elettronica. Si può dire che Mux nelle sue sperimentazioni cerca di fondere più generi e sonorità?

Sinceramente per come intendo la musica elettronica non esistono strumenti “estranei” a questo mondo. Il valore portante della musica elettronica, a mio avviso, è la possibilità di utilizzare qualsiasi fonte sonora e adoperarla nei modi più disparati, dal tradizionale a quello più d’avanguardia. 

In un articolo pubblicato lo scorso anno su redbull.com viene citata un’affermazione di Raffaele Costantino, secondo il quale “il beatmaking è come l’officina sotterranea di uno scienziato pazzo”. I musicisti dell’elettronica come “manipolo di visionari sottotraccia”. Ti ritrovi in questa definizione?

Completamente. Credo che queste “officine sotterranee” siano l’ambito più libero e meno legato alle logiche di mercato che oramai immobilizzano la maggior parte della musica e dell’arte in generale. La libertà dettata dalla voglia di esprimersi è un fuoco per la creatività. Basti pensare che negli ultimi anni le cose più interessanti sono nate grazie a questo “manipolo di visionari sottotraccia”.

Per un musicista elettronico il lavoro in studio è fatto di sperimentazione e di cura del dettaglio. Dal vivo, invece, quali sono le difficoltà più grandi?

Per me la difficoltà più grande nei live è quella di offrire ogni volta un “performance” coinvolgente ed emozionante, cosa difficile da restituire non suonando uno strumento tradizionale che già visivamente offre un coinvolgimento differente allo spettatore.

Il tuo curriculum già racconta di importanti collaborazioni: Marcello Coleman, Oyoshe, GanjaFarm Cru, Jah Free, per citarne alcuni. C’è un’esperienza che ti ha lasciato un segno prezioso? Magari anche ricordando un aneddoto particolare.

Ogni collaborazione mi ha lasciato un segno prezioso. Non ricordo un aneddoto in particolare ma sicuramente l’incontro con Marcello Coleman, con cui ho avuto la possibilità di condividere il palco in più occasioni. Un’esperienza di crescita. Marcello è una persona speciale, un artista “importante”, sia dal punto di vista prettamente musicale che sotto il profilo umano.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

error: Content is protected !!