Lo scontro di civiltà e la differenza

di Riccardo Rita

E poi in tv c’è sempre quello che no, assolutamente, non è uno scontro tra civiltà. È a quel punto che inarco le sopracciglia. Ah no? faccio tra me e me. Interessante. Mi appoggio allo schienale del divano, accavallo le gambe, mi afferro il ginocchio con le mani intrecciate e aspetto che il tizio di turno mi sveli, quindi, di che cos’è che stiamo parlando. Ma non lo fa. Sa dirmi solo quello che non è. E non è uno scontro tra civiltà.

Siccome di solito sono quelli di destra tipo la Le Pen, Salvini o Gasparri che parlano di scontro di civiltà, e siccome io mi ritengo di sinistra, sulle prime me la bevo e me ne resto lì, buono buono, senza cambiare posizione, con lo sguardo concentrato sullo schermo. Però non ascolto già più: continuo a rimuginare sulla cosa. La visualizzo. Da una parte m’immagino uno scontro di civiltà, dall’altro provo a figurarmi la situazione in cui ci troviamo. Le metto l’una di fianco all’altra, come in quel gioco della settimana enigmistica, avete presente? Trova le differenze. E comincio a non trovare più una posizione comoda, su quel maledetto divano.

Semplificando brutalmente, due civiltà confliggono quando si basano su assunti difficilmente conciliabili (come, per esempio, la sottomissione a una credenza religiosa e la libertà di pensiero) e, allo stesso tempo, sono costrette dalle circostanze a entrare in contatto e a compenetrarsi. La cosa interessante degli scontri tra civiltà è che non servono due popoli o due nazioni per averne uno, e sono molto più frequenti di quanto non s’immagini. Il rogo di Giordano Bruno e il processo a Galilei furono due conseguenze, con esiti diversi, dello stesso scontro tra civiltà. Uno scontro che in qualche modo viviamo ancora quando, in Italia, discutiamo di aborto, contraccettivi (specie quelli del giorno dopo), testamento biologico, gestione della propria morte, unioni tra omosessuali. La stessa cosa si può dire per il caso della nave Amistad e la guerra civile americana, scontro, anche quello, che, passando per Rosa Parks, Autherine Lucy e Michael Brown, perdura ancora oggi.

Negli scontri di civiltà, di solito, una delle due parti non può in nessun modo tollerare l’esistenza dell’altra – e vale la pena notare come la parte meno tollerante non sia necessariamente la meno evoluta. Per esempio, la cultura che si esprime a favore della pena di morte non ha nessuna difficoltà a tollerare l’esistenza di una civiltà che la rigetta, purché si affermi al di fuori dei propri confini. Al contrario, la cultura che rifiuta la pena di morte non si accontenta di eliminarla dai propri confini, ma aspira a un suo totale e globale superamento.

Un’altra cosa interessante degli scontri di civiltà è che non sono mai una lotta tra masse e solo quando sfociano in una guerra finiscono per coinvolgere direttamente gli individui. Si tratta invece di un conflitto tra sistemi ideologici che si esercita soprattutto sulle grandi astrazioni (Dio, società, Stato, libertà). Siccome l’ideologia, nella vita di tutti i giorni, soltanto in alcuni casi si materializza in qualcosa di concreto, e siccome le persone tendono a essere flessibili e ad avere un discreto senso pratico, nella stragrande maggioranza delle circostanze gli individui appartenenti alle due diverse civiltà riescono a interagire con reciproca soddisfazione. Finché non succede che una donna, sull’autobus, non decida di sedersi dove, secondo l’altra civiltà, non dovrebbe o fino a quando una rivista satirica non decide di posare la matita su ciò che l’altra civiltà reputa intoccabile e irrappresentabile.

Ecco. Io, di differenze, tra uno scontro tra civiltà e l’attualità che stiamo vivendo, proprio non ne vedo. I tre sospettati dell’eccidio del Charlie Hebdo esprimono un pezzo non trascurabile di questo conflitto, allo stesso modo in cui lo esprimono Eric Rudolph e i tanti terroristi bianchi, cristiani e antiabortisti che negli Stati Uniti hanno fatto stragi di medici, pazienti e passanti nella loro crociata contro la “cultura della morte” (senza notarne il paradosso). Chi ne fa una questione di religione, etnia o colore della pelle o è stupido o è in malafede e – lo dico a scanso di equivoci – sono perfettamente consapevole dell’ingiustizia insita in qualsiasi generalizzazione. Condivido le cose ovvie: che non possiamo confondere Islam e terrorismo, religione e fanatismo, che l’Occidente ha enormi responsabilità e che i veri nemici, di tutti, sono l’ingiustizia, l’ignoranza e la povertà. Però ricordiamoci che fascismo e nazismo fecero leva proprio sulle ingiustizie e le disuguaglianze presenti nelle democrazie liberali, utilizzando la paura, la frustrazione e l’ignoranza delle classi più povere e che ciò nondimeno dovettero essere combattuti e sconfitti.

Accettare di guardare le cose per quello che sono, forse, ci consente di adottare una strategia migliore per affrontarle; e io sospetto che, nel conflitto in atto, le battaglie più importanti non verranno combattute né con i kalashnikov né con le vignette né con le parole, ma con le azioni semplici e ordinarie di tutti i giorni. Per questo servirà il contributo di ciascuno e, in questo senso, rubando le parole a Gramsci, io mi sento partigiano e non ho molta simpatia per gli indifferenti. Mi sento parte di una civiltà ancora piena di contraddizioni e ingiustizie che, però, dopo quasi tremila (sanguinosi) anni di storia, è riuscita ad avviare un esteso processo di emancipazione e democratizzazione le cui imperfezioni non mi impediscono di riconoscerne il valore. Nella mia civiltà le donne, al pari degli uomini, votano, possono guidare un’automobile, avere delle proprietà, vestirsi a piacimento, frequentare scuole e università, fare sesso e sposarsi quando e con chi vogliono e, in generale, disporre della propria vita autonomamente e, in piena libertà, ricercare il senso e il proprio posto nel mondo.

Sappiamo bene che queste cose, che oggi appaiono ovvie, non lo sono ovunque e non per tutti e che, fino a poche decine d’anni fa, non erano scontate nemmeno dalle nostre parti. Ma cosa credete che le abbia prodotte? Pensate che senza quei tremila anni di storia alle spalle avremmo saputo partorirle, in un secoletto scarso? Per comprendere a fondo l’essenza della libertà di espressione e dell’uguaglianza, per distillare nel diritto il pensiero naturalista, razionalista e idealista, per accogliere in noi e armonizzare idee religiose, spirito laico e ateismo etico ci sono voluti Eraclito, Protagora, Socrate, Platone, Aristotele, Confucio, Agostino, Tommaso, Averroè, Descartes, Spinoza, Leibniz, Pascal, Vico, Montesquieu, Rousseau, Voltaire, Hume, Kant, Hegel, Marx, Mill, Nietzsche, Thoreau, Freud e Camus, solo per citarne ventisei (quanti sono i secoli che separano Eraclito da Camus). In questa civiltà possiamo esprimerci quasi illimitatamente e siamo capaci di accogliere l’altro quasi altrettanto illimitatamente.

D’accordo, ci sono politici che hanno proposto di cannoneggiare i barconi carichi di clandestini diretti verso le nostre coste e partiti che vorrebbero limitare sensibilmente questa nostra capacità, sviluppata grazie a ventisei secoli di pensiero, di accogliere l’altro e la diversità che rappresenta. Ma questi partiti, questi politici, sono a tutti gli effetti parte della civiltà contro cui, pacificamente, io e la mia civiltà – la civiltà umana – ci battiamo.

È questa la civiltà cui indirettamente alludeva Vittorio Foa, ebreo, resistente e militante comunista, mentre stringeva la mano a Giorgio Pisanò, parlamentare Msi ed ex ufficiale della X Mas. “Vedi la differenza”, gli disse. “Se aveste vinto voi io sarei ancora nelle galere dove ho passato tanti anni della mia giovinezza. Ma abbiamo vinto noi e tu sei senatore della Repubblica”. Ecco, finalmente. Adesso la vedo, la differenza. E voi la vedete?

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