La banalità del male e il pensiero affrancante
di Marco Antonio D’Aituolo
La perniciosa, difficile, mai risolta questione del male: perché parlarne in una rubrica che tratta di Esistenze affrancate? Mi collego e sviluppo l’articolo dedicato alle bugie. Perché il male morale e la menzogna sono temi scottanti, all’ordine del giorno, in primo piano nelle cronache, diffuse e alimentate nei social. Filosofi di tutti i tempi si sono barcamenati per cercarne le ragioni. Il male ha, sì, moventi, ma nessuna ragion d’essere o logica che lo giustifichi. È mero frutto di arbitrarie azioni umane. Come la menzogna, tende a strutturarsi, superarci, sovrastarci, si insidia e inquina nei rapporti personali e istituzionali al punto tale che ci coglie di sorpresa ponendoci dinanzi alle nostre fragilità e vulnerabilità. Nel contempo, però, suscita in noi una sana sensazione di scandalo, anch’essa tipicamente umana: non ci si deve mai abituare al male, come scriveva Diedrich Bonhoeffer, che aggiunge: “Una delle esperienze più sorprendenti e al tempo stesso più incontestabili è la rivelazione (spesso in un tempo sorprendentemente breve) del male come stupidità e inutilità”. Per cui, il male non è che “fuffa”, semplicemente non è. Di qui l’idea del male come banale.
Della banalità del male, è noto, ne parla Hannah Arendt nel libro omonimo del 1963. Analizza il processo a Otto Adolf Eichmann, nazista accusato di crimini antisemiti, tenutosi a Gerusalemme nel ’61. Eichmann mostrò al mondo una mancata personalità, il cui carattere palesava tratti burleschi e istrionici. Pertanto, Arendt raggiunge la
convinzione che il male non sia radicale, ma solo estremo. Non ha origine da un’innata malvagità, ma dipende dall’assenza di pensiero e quindi dall’incapacità di confutazione. Ciò rese Eichmann un criminale. Chi smette di riflettere diviene incline a ergere tutori, accettando di restare in uno stato di minorità, eseguendo ordini senza chiedersi se siano giusti o sbagliati. Qualsiasi forma di potere instupidisce, come animali domestici, impedendo a “queste pacifiche creature”, di “muovere un passo fuori dal girello da bambini” in cui sono state imprigionate. Mostra, poi “ad esse il pericolo che le minaccia qualora tentassero di camminare da sole”. (Kant, Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo?). Non che il potere o chi ne faccia le veci non siano altrettanto banali: si continua a essere in totale assenza di idee, riflessione, stimolo, pura assoggettamento a una causa.
Sebbene Kant lasci intendere che si tratti di persone pacifiche, queste sarebbero disposte a tutto, anche ad azioni orribili pur di raggiungere un scopo. Ermanno Bencivenga, ne L’etica di Kant. La razionalità del bene, dove menziona Arendt, osserva che se a essi gli si chiedesse: “quali ragioni?”, non sarebbero in gradi di dire nulla di speciale in merito, se non: “perché va fatto, non può non essere fatto”. Magari raggiungere lo scopo costa fatica, per arrivarci si è costretti a un tortuoso cammino e a ogni passo gli si potrebbe ancora chiedere: “perché lo fai?”. Si indicherebbe la destinazione senza ottenere risposte, “se non, forse, un riferimento inarticolato al proprio desiderio, che sigillerebbe, piuttosto che risolvere, il suo mutismo. E qualsiasi altra cosa non razionale funzionerebbe allo stesso modo”.
Ecco: il non razionale! Prendendo spunto da Bencivenga, si potrebbe poroporre un esempio: il male è come essere addormentati, vegetare in uno stato di incoscienza. La riflessione è veglia. L’immagine è forte, ma rende l’idea. Il primo non è di per sé moralmente cattivo: non-consapevole, è innocente. Ma immaginiamo di venir svegliati, richiamati dal primo al secondo stato dalla voce della ragione (espressione kantiana). Non solo quando entra in funzione la consapevolezza (morale), ci si rende conto dell’inconsapevolezza di prima, ma se ne continua a percepire la forza influente e prepotente, come qualcosa che potrebbe trascinarci nuovamente in essa. Se ci si lascia “gestire”, si fa di tutto per non svegliarsi, continuando a confondere sogno e realtà, preferendo il sogno alla realtà.
Al di là dell’immagine, in effetti, cedere al male è un abbandonarsi a uno stato di natura, fatto di cause ed effetti, in cui l’autentico processo di libera riflessione e deliberazione cosciente non si avvia o viene inibito, né l’azione che potrebbe rompere la sequenza incontrollata, come effetto domino. È quindi un lasciarsi trascinare: strategie, regole, comportamenti che si elaborano quasi meccanicamente e servono a soddisfare inclinazioni e impulsi ci danno la convinzione d’essere protagonisti, come nei sogni. Ci si costruisce addirittura una visione del mondo (distorta), si cerca di non perderla, sentendosi a casa. Ma in realtà gli atti che si fanno atti sono senza vero controllo, in un modo così lucido da essere allucinante.
Non bisogna scomodare Eichmann. Accade anche in persone comunissime. Appaiono sveglie, moralmente consapevoli, le loro azioni addirittura conformi a legalità, altruismo, onestà. Mentre, invece, nascondono interessi egoistici, tornaconto, ambiguità, doppiezza. Possono sfociare in crimini efferati e sentir dire: sembrava una brava persona. O magari non raggiungere mai i livelli estremi di Eichmann, ma medieranno una tentazione. Il comportamento falso si strutturerà in legami insinceri e complici, fino a corrompere un’intera società. In breve, a radicalizzarsi, che è ben diverso dall’essere radicale. E che non sia radicale è indubbio. La coscienza riflettente resta in funzione, strumentalizzata, forse, asservita, distorta, instupidita. Ma la voce della ragione non smette di richiamare alla consapevolezza morale, ridestando dall’incoscienza. Quando Kant osservava che la legge morale è incorruttibile, non vuol dire che la coscienza morale sia scontata, che, se non coltivata, sia automatico evitare lo scivolone nell’irrazionale. Solo il continuo esercizio di riflessione consapevole può fortificare la moralità.
Assecondare le inclinazioni favorisce l’assopimento fino a condurci a livelli in cui le situazioni ci sfuggono di mano. Ma la ragione normativa rimane incorruttibile. Se così non fosse, se non funzionasse più, non potremmo spiegarci la possibilità del risveglio, quindi la conversione o l’azione alternativa, per esempio, a un contesto culturale corrotto, in cui, eventualmente, siamo cresciuti e stati educati. Si dica ciò che si vuole, ma queste possibilità sono innegabili. La possibilità che si venga “a trovare un uomo onesto” in un paese di ladri, il cui comportamento insidi l’ordito del sistema, finanche a lasciarsi espellere dallo stesso che vuole sopravvivere, come racconta La pecora nera di Italo Calvino. Anche il bene media una tentazione. Al limite e per assurdo, se la ragione fosse in via costitutiva compromessa, in tutta l’umanità non ci si porrebbe affatto il problema del male. O anche, se il suo assetto fosse in sé sbagliato, se l’idea di bene concepita fosse male, l’umanità non avrebbe altre misure di valutazione. Se la ragione si inganna saremo ingannati tutti per sempre.
Tornando all’immagine di veglia/sonno, possiamo ricavare un ultimo aspetto. Immaginiamo di essere stati appena svegliati e consapevoli. Nel guardare lo stato precedente, oltre a coglierne l’estraneità, ne coglieremmo l’incomprensibilità, l’illogicità, l’irrazionalità, la gratuità, l’arbitrarietà dei moventi, magari la loro natura neuropsichica. Resta che la riflessione normativa ci impone di attribuirci, ciononostante, la responsabilità degli atti. Perché è propriamente solo questo che la ragione può dire al riguardo: essa non riuscirà mai a offrirci un altro senso, un concetto adeguato alla comprensione e valido per un registro di conversazione consapevole e morale. Mostrerà solo la banalità intrinseca, quindi la non doverosità. Possiamo usare il dovere come alibi, mai avrà vera autorità, né sarà autentico obbligo.
Questo non deve far pensare al Super-Io freudiano. La riflessione ha una forma dialogica, sulla quale ritornerò. Per ora, vorrei concludere dicendo che è il registro di conversazione ragionevole a creare contatti con gli altri, con il mondo, la realtà, a farci maturare uno sguardo sincero su noi stessi e di noi stessi. La ragione di cui si parla è presa di coscienza, autentica presa di posizione, assunzione di responsabilità in prima persona. È una riflessione che suscita sentimenti di riconoscimento e rispetto, per i quali si producono esistenze affrancate. Per cui, secondo la Arendt: “La manifestazione del vento del pensiero non è la conoscenza; è l’attitudine a discernere il bene dal male, il bello dal brutto. Il che, forse, nei rari momenti in cui ogni la posta è in gioco, è realmente in grado di impedire le catastrofi”.