“Diario di un curato di campagna”: l’inno alla grazia di Robert Bresson
Quanto è meraviglioso che si possa donare
quel che non si ha: miracolo delle nostre mani vuote
Se nei primi due lungometraggi Robert Bresson sente il bisogno di farsi affiancare nella scrittura, in sede di dialoghi, da due scrittori come Jean Giraudoux (La conversa di Belfort) e Jean Cocteau (Perfidia, tratto da Jacques il fatalista di Denis Diderot), questa volta il maestro francese si occupa da solo dello script, pur appoggiandosi al solido romanzo di Georges Bernanos. Alla sua uscita, nel 1950, il film ricevette l’apprezzamento di due grandi autori cattolici: François Mauriac lo definì “il primo film della vita interiore” mentre Julien Green parlò di un’opera “tutta fatta di verità interiore, che passa sullo schermo senza la minima concessione”. Dal canto suo, il grande critico André Bazin parlò di un “cinema d’anima” e ne apprezzò la capacità di sottrazione rispetto alla folta materia del romanzo, fatta soprattutto di riflessioni, di stati d’animo e di idee che avevano la preminenza rispetto all’andamento narrativo.
Diario di un curato di campagna è senz’altro un film tutto giocato sull’interiorità del suo protagonista ma la straordinaria riuscita dell’opera (il primo, vero capolavoro di Bresson) sta nella capacità di comunicare il tormento interiore del curato attraverso il mezzo cinematografico e un uso attento, quasi millimetrico, dei movimenti di macchina. Un esempio potrebbe essere dato dal breve zoom in avvicinamento sul curato durante la messa, quando egli scorge il volto piangente di Luisa, unica fedele presente alla celebrazione, e la sua espressione muta si trasforma in dolente pena. Attraverso lo stile scarno, sobrio, rigoroso ed essenziale che diventerà la sua cifra, Bresson mette in scena la storia di un combattimento spirituale contro un nemico impalpabile e inafferrabile, presenza/assenza costante che permea il racconto in ogni sua piega, come se il curato si trovasse in un lungo, interminabile Getsemani, il luogo che, secondo la fede cristiana, rappresenta il massimo dolore dell’anima nella breve vicenda terrena del Cristo.
Il curato d’Ambricourt deve infatti confrontarsi con la sua solitudine estrema, tanto più dolorosa perché non invocata: egli non fa che cercare la compagnia dei suoi simili, i quali gli si sottraggono, in un’ostilità immotivata e talvolta dolorosamente sadica, che lo fa sentire estraneo al luogo in cui si trova ma, ad un più alto livello, anche straniero alla terra. Alla religiosità tormentata del protagonista si oppone la sicurezza e l’indifferenza del curato di Torcy, l’apparente sicurezza scientifica del dottor Dalbende, il dolore inguaribile della contessa, la perfidia di Chantal, la spietatezza del conte. Come il collega e correligionario Mauriac, Bernanos (e Bresson) circonda il suo protagonista di un “groviglio di vipere” dentro il quale egli, malato nel corpo e nell’anima, non può che essere sempre sul punto di soccombere.
Costruendo il film secondo un andamento antidrammatico, che diventerà poi una costante delle opere successive, Bresson infonde comunque ai personaggi un surplus di emotività, forse temendo che la “letterarietà” del testo di partenza finisse per provocare un eccessivo raffreddamento del dramma. Per questa ragione, la recitazione degli attori è meno atona di quanto avverrà in alcuni dei suoi esiti successivi, e più vibrante, e i sentimenti hanno modo di esplodere, talvolta in maniera forte e violenta, come nella memorabile sequenza del confronto con il dolore della contessa, vero apice drammatico e punto di svolta del film.
Come nei successivi Luci d’inverno di Ingmar Bergman, L’esorcista di William Friedkin (che, più che un horror, è uno splendido affresco sul sentimento della malinconia), La messa è finita di Nanni Moretti, Sotto il sole di Satana di Maurice Pialat, fino ad arrivare a First Reformed, l’ultimo, splendido parto creativo di Paul Schrader, il Diario è un viaggio dentro la figura solitaria del prete, che combatte un’inesausta battaglia contro il silenzio di Dio, croce e delizia della sua vocazione, tra anelito alla libertà ed esperienza della prigionia, inesausta ricerca d’amore e di contatto umano e consapevolezza del muro che la propria condizione erige tra sé e gli altri. Da qui l’esigenza del diario, la necessità di lasciare una traccia di sé, il desiderio di compensare il brutale trattamento di cui si è oggetto, il bisogno della pagina bianca da trasformare in muto testimone della propria anima.
Dolorosa e struggente radiografia della lacerazione di un’anima, Diario di un curato di campagna è un’opera indimenticabile, capace di frugare negli abissi più profondi del male per portare alla luce la speranza, indomita e un po’ folle, che tutto sia Grazia.
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