Berlinale 2017: ovvero come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba

È iniziata piuttosto sottotono questa 67° Berlinale, almeno per quel che riguarda il Concorso. Mentre scriviamo sono già passati cinque dei diciotto titoli in corsa per l’Orso d’oro e il livello delle pellicole che si sono succedute appare, sino a questo momento, a dir poco modesto. Il Festival si è aperto con Django di Etienne Comar, produttore e sceneggiatore francese, qui al suo esordio alla regia. Non inganni il titolo: nulla a che vedere con Sergio Corbucci, Franco Nero o Quentin Tarantino. Ci troviamo a Parigi, nel pieno della seconda guerra mondiale, dove il protagonista eponimo, un cantante jazz belga di etnia sinti, è costretto a sperimentare sulla sua pelle la persecuzione nazista. Purtroppo il film, come buona parte dei recenti prodotti cinematografici che si cimentano con l’immane tragedia dell’Olocausto, non va al di là della mera illustrazione presentando tutti i limiti di quello che è ormai diventato un vero e proprio genere cinematografico.

Non molto meglio è andata con gli altri titoli: siamo passati, infatti, dal discreto On Body and Soul, storia d’amore estremo che si svolge all’interno di un macello e diretta dalla regista ungherese Ildikó Enyedi, a The Dinner di Oren Moverman, opera di grandi ambizioni che squaderna davanti allo spettatore forti conflitti familiari e delicati interrogativi morali ma non riesce a centrare nessuno dei molti bersagli presi di mira, per continuare col pessimo Félicitè di Alain Gomis, cineasta francese di origini africane, vicenda ambientata a Kinshasa che vorrebbe raccontare il calvario di una donna con la passione del canto nella capitale congolose, terra di nessuno abbandonata a se stessa.

Peccato che il film, della durata abnorme di 123 minuti, racconti tutto (e male) nella prima ora e non sappia più a cosa obbligare gli attori nella seconda, dove si vedono i protagonisti vagare da un luogo all’altro in uno smarrimento non dissimile da quello provato dallo spettatore malauguratamente capitato da quelle parti. Infine, l’attore austriaco Josef Hader ha presentato Wild Mouse, commedia grottesca che ridicolizza la borghesia viennese, alternando momenti divertenti e ispirati ad altri, specie nel finale, dove viene fuori tutta l’inesperienza dell’esordiente regista.

Sbirciando invece nelle altre sezioni, piuttosto interessante il dramma familaire Barrage (nella sezione “Forum”) diretto dalla regista lussemburghese Laura Schroeder e interpretato da Isabelle Huppert e Lolita Chammah, che sono madre e figlia nella vita come in questo intenso racconto che si svolge nella campagna francese.

La migliore esperienza vissuta sinora in sala finora resta, comunque,  la visione di The Bomb (presentato in “Berlinale Special”), film di montaggio sull’atomica diretto da un trio di registi formato da Kevin Ford, Smiriti Keshari ed Eric Schlosser. La proiezione, accompagnata dalla musica dal vivo del gruppo “The Acid”, e dalla distribuzione di materiale informativo, presenta lo stato dell’arte (per nulla buono) nel campo della proliferazione nucleare e denuncia l’aumento esponenziale di testate e di esperimenti fatti attraverso sottomarini lanciamissili balistici.

Pur privilegiando l’aspetto visivo e la sua contaminazione con quello acustico rispetto a quello meramente didattico-informativo, il film mostra come La Bomba costituisca, per alcuni Stati, oggetto di vera e propria venerazione, motivo di orgoglio da ostentare nel corso di agghiaccianti parate. Il triste primato in questo campo (in barba a tutti i trattati di non proliferazione) è detenuto ancora da Stati Uniti e Russia che posseggono circa il 90% dell’armamentario totale, anche se nazioni come Corea del Nord, India e Pakistan stanno cercando di tener testa alle due grandi potenze dotandosi di arsenali sempre più ampi, sofisticati e distruttivi.

Per chi volesse saperne di più (o avesse intenzione di risolvere i suoi problemi lanciando bombe all’idrogeno), troverà importanti spunti dissuasivi al seguente link: www.thebombnow.com.

Salvatore Marfella

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