Come può la filosofia contribuire al problema della migrazione? Dallo Stato-centrismo al diritto di coabitare – Seconda parte
di Marco Antonio D’Aiutolo
Ho avuto modo di conoscere e ascoltare la prof.ssa Donatella Di Cesare durante un convegno tenutosi nell’ottobre 2017, presso l’Università degli studi di Salerno. La filosofa presentava il suo Stranieri residenti. Una filosofia della migrazione che era appena stato pubblicato. Vorrei riprendere la seconda parte del presente riallacciandomi a un aneddoto che lei, per l’occasione, prese in considerazione: l’allora recente questione della crisi catalana. Riportava una dichiarazione di Jean-Claude Juncker: “i cittadini catalani che non sono più cittadini spagnoli non sono più cittadini europei.” Dopodiché la Di Cesare aveva osservato che, qualunque fosse stata la posizione in merito all’indipendenza della Catalogna dalla Spagna, “[questa dichiarazione] dimostra che la cittadinanza europea è semplicemente un doppione. Voi avete un passaporto europeo, solo perché avete un passaporto italiano. E non è forse ciò che è accaduto nell’Europa delle leggi razziste, Norimberga 1935? Tu sei ebreo tedesco? Non importa, in quanto ebreo, ti tolgo la cittadinanza tedesca. Il passaggio alle camere a gas è breve. Non dimentichiamo che anche in Italia, nel ’38, ci sono state le leggi razziste. Dunque, il problema è: quale Europa? Come fa l’Europa a dimenticare tutto questo?”
Cosa c’entra l’aneddoto riportato con l’immigrazione? Il punto è proprio il concetto di cittadinanza che possediamo. Come si ricorderà, nella prima parte di questo contributo, ho sostenuto che, secondo Di Cesare, è solo garantendo al migrante lo statuto di “straniero residente” che è possibile superare un’ottica Stato-centrica, il sovranismo statuario e una politica come governance, ridotta a mera amministrazione e policy, risposta poliziesca. “Il Security State… che promette di rassicurare, proteggere, difendere i cittadini. E trova qui la sua legittimità”, come si legge in un’intervista alla docente della Sapienza su Possibile.com (10 dic. 2017). Stato-centrismo, sovranismo e governance sono legati a un atavico modello di cittadinanza. Ora, lo statuto dello straniero residente riconosce allo straniero il diritto di abitare, o meglio di coabitare che non è all’insegna del possesso/avere, ma dell’essere. E già questo permette di rispondere no alla domanda: “possiamo noi decidere con chi coabitare?”. Ma il diritto, lo ius migrandi, funziona, per così dire, solo se riconosciamo che anche noi siamo stranieri residenti, chiamati a risiedere nella separazione dalla terra, ben oltre lo ius sanguinis e lo ius loci, che fanno leva proprio sullo sviluppo storico del concetto di cittadinanza.
Nel suo libro, la Di Cesare delinea tre paradigmi di cittadinanza che hanno influenzato la politica occidentale: quello di Atene, quello di Roma e quello di Gerusalemme. Mi soffermo sul primo perché, per la filosofa, ha avuto più fortuna. Si basa sul mito dell’autoctonia (da autò, stesso e chthôn, suolo), per cui io ho diritto di essere cittadino per discendenza di sangue, perché i miei abitavano qui, ma anche perché sono nato qui. Questo mito funziona anche nell’Italia di oggi ed è il mito dello ius soli, diritto del suolo. Lo stesso dibattito sulla legge di cittadinanza agli stranieri, partito negli anni ’90 e che aveva assunto particolare centralità nel 2017, nel tentativo di riesumare una proposta di legge dormiente dal 2012, ha mostrato come questi spettri ce li portiamo dietro da secoli. Per non parlare dell’atto vandalico, che spazza via ogni possibile discussione, dell’attuale Decreto Salvini; o della sua risposta grottesca al ricorso per risarcimento dei 41 profughi eritrei, bloccati sulla nave Diciotti dallo stesso ministro per dieci giorni prima di consentirne la discesa a terra. Ma al di là della sua “grassa risata” e del suo proposito di mandare a loro “Baci Perugina”, credo che, come osserva Di Cesare, sia gravissimo che nell’Europa odierna miti del genere possano ancora avere presa. I cittadini di uno Stato-nazione continuano a immaginarsi come avente un diritto di nascita ed essere proprietari del suolo. La versione parossistica è quella del Terzo Reich, ma sopravvive ancora nelle democrazie occidentali.
Le democrazie sono sorte per proclamare i diritti dell’uomo e del cittadino. Tuttavia fondano la propria sovranità su principi quali omogeneità nazionale e appartenenza territoriale, in netta contraddizione con l’idea di mobilità, fatta emergere dalle migrazioni. Si tratta di un dilemma costitutivo che sfocia nella tensione politica tra sovranità statale e adesione ai diritti umani. Nelle nostre democrazie liberali, per i cittadini sovrani di una nazione, che ne condividono l’ottica interna sin dalla nascita, lo Stato ha un’immediatezza ovvia, un dato eterno e un’indiscutibile naturalità. Senza l’assunzione aprioristica discriminatoria e il valore sacrale delle frontiere, lo Stato cesserebbe di esistere. Il migrante, invece, ne smaschera la sua “finzione”, ossia il fatto che lo Stato-nazione sia un fenomeno naturale e non storico.
È quindi pericoloso, ne mette in questione il fondamento, ne scredita la purezza mitica e costringe a ripensare lo stesso. Pertanto, porta con sé una carica sovversiva, costituisce un’anomalia intollerabile, una sfida alla sua sovranità. È un intruso, un fuorilegge, un illegale, ma di più: colui che scardina il principio su cui lo Stato si è edificato. Pur di difendere tale principio, lo Stato è disposto a violare apertamente i diritti umani e a rendere le frontiere non solo uno scoglio contro cui naufragano tante vite, ma anche l’ostacolo eretto contro ogni diritto di migrare.
Diritti umani e sovranità statale appaiono inconciliabili anche nelle convenzioni universali e nei documenti giuridici internazionali, palesando, purtroppo, la loro impotenza. Sotto questo aspetto, lo slogan populista e xenofobo dell’“ognuno a casa propria” ignora l’eredità hitleriana che si arrogava di stabilire criteri di coabitazione. È un gesto discriminatorio che rivendica per sé il luogo in modo esclusivo, si erge a soggetto sovrano, fantastica una supposta identità con il suolo che reclama come sua proprietà (diritto di proprietà). L’altro non ha alcun diritto, neppure quello di fare ricorso, tutto più merita un Bacio Perugina. In queste rivendicazioni non si cela forse una violenza ancestrale? Non è forse il soggetto sovrano a essere un usurpatore, che vuole sostituirsi all’altro, scalzarlo, cancellarne le tracce, come se non fosse neppure esistito? Non ne cancella, in questo modo, ogni etica?
Solo una riflessione filosofica che muova dalla migrazione e da una politica dell’accoglienza, permette al migrare di essere punto d’avvio e al migrante di essere protagonista di un nuovo scenario. Nessuno è stato scelto. Sulla terra ha avuto temporaneamente un luogo dove prima abitava un altro e di cui non può esigerne il possesso. Nell’esilio planetario della globalizzazione, siamo tutti stranieri residenti. Si tratta di una figura antica e nuova, capace di far saltare quella logica che assegna l’abitare all’autoctono, al cittadino e di collegare lo straniero al risiedere, all’abitare. Un abitare che non va inteso come uno stabilirsi, un installarsi, uno stanziarsi o un fare corpo con la terra. Lo straniero residente è allora sia il migrante che il cittadino, entrambi abitano il solco della separazione dalla terra, non se ne appropriano perché è inappropriabile. Per cui va riscritto il significato sia di “abitare” che di “migrare”. La Di Cesare si allontana anche dall’idea cosmopolita di democratizzazione della cittadinanza, svincolata cioè dalla nazione. È necessario andare al di là della stessa cittadinanza, non basta proclamarsi cittadini del mondo. Il concetto di cittadinanza non è immutabile, deve evolvere. È in esso che va iscritta l’ospitalità.
Per questo la sfida politica ed etica è il coabitare, dove al centro c’è lo ius migrandi, il diritto umano del nuovo millennio, già sostenuto, come ricorda Di Cesare, dall’associazionismo militante, dai movimenti internazionali e da una opinione pubblica sempre più avvertita e vigile. Ma esso avrà senso solo nell’ottica dell’ospitalità, da intendersi appunto come “diritto di residenza” e richiederà una lotta pari a quella per l’abolizione della schiavitù.
Immagine di copertina da www.rapportodiritti.it