“L’argent” di Robert Bresson: l’opera al nero
– Ma io mi meraviglio di te, che sei
sempre sola a far tutto e ti occupi sempre degli altri. E
vedo che da loro pochi beni ricevi. Si vede che tu hai letto
nei libri che ci sarà una ricompensa
nell’altro mondo.
– Di questo non sappiamo nulla, ma è meglio vivere così.
Lev N. Tolstoj, La cedola falsa
L’argent è l’opera terminale, in tutti i sensi, di Robert Bresson, l’esito estremo di una filmografia impeccabile, l’ultima gemma che il maestro francese riuscì a incastonare alla ormai veneranda età di 82 anni. Ma non era soltanto questione di anagrafe: durante tutta la sua carriera, e principalmente negli ultimi anni, Bresson dovette faticare non poco per portare realizzare i suoi film che sempre meno riuscivano a calamitare finanziamenti. Non sembrava esserci molto spazio, nemmeno nella virtuosa industria cinematografica francese, per un cinema dagli elementi così scarni, dalla messinscena così rarefatta, senza attori di richiamo, sostituiti da persone scelte solo per i loro volti, dopo casting molto scrupolosi, per un ritratto così lucido e impietoso dell’animo umano.
L’argent segue di sei anni Il diavolo probabilmente ma, a differenza di alcuni suoi colleghi statunitensi come Stanley Kubrick o Terrence Malick, il cui maniacale perfezionismo e la perenne insoddisfazione li portava a diradare le uscite, il silenzio di Bresson non ha niente di “romantico”, non va ricercato nel genio che ha bisogno di lunghi periodi di gestazione, nel lungo lavoro di rifinitura sulla sceneggiatura, che per L’argent è invece già pronta nel 1979, nella volontà di cesellare ogni minimo dettaglio. Molto più prosaicamente, dopo molti rifiuti, Bresson ormai dispera che il suo film possa vedere mai la luce fino a quando riesce a trovare un insperato e decisivo contributo del Ministero della Cultura. Questa circostanza provocò alcuni maliziosi commenti da parte della stampa, che chiese più volte a Bresson se la scelta di inserire nel cast Caroline Lang, figlia del Ministro, non fosse stato un rospo che il regista aveva dovuto mandar giù per riuscire a realizzare il film, pesantemente (e, verrebbe da aggiungere, vergognosamente) fischiato al Festival di Cannes del 1983, dove la pellicola riuscì comunque a portare a casa il Premio per la Miglior Regia, ex-aequo con Nostalghia di Andrej Tarkovskij. Pettegolezzi di una stampa più interessata alla caccia al gossip che alla valutazione dell’unicità di un cinema originalissimo, privo sia di precursori che di veri epigoni.
All’origine de L’argent c’è ancora una volta la letteratura russa: dopo il dittico dostoevskinano costituito da Così bella, così dolce e Quattro notti di un sognatore (ma echi dell’autore di Delitto e castigo sono presenti anche in Pickpocket e Il diavolo, probabilmente), Bresson si rivolge questa volta a Lev N. Tolstoj adattando e aggiornando La cedola falsa. Pubblicato anche con il titolo Denaro falso, si tratta di un racconto in cui l’autore di Anna Karenina descrive una progressiva e irrefrenabile ascesa del Male, originata dalla circolazione di una banconota falsa, spacciata da due giovinastri, che genera una serie di eventi sempre più drammatici in un vero e proprio effetto-valanga. Nel film di Bresson, che tiene conto solo della prima delle due parti del racconto, si parte dallo spaccio della banconota ad opera dei due giovani, si passa per la condanna ingiusta di Yvon Targe, un giovane operaio innocente, e si arriva alla terribile ed efferata vendetta messa in campo da quest’ultimo. Yvon Targe, descritto come una persona inizialmente mite e onesta, sceglie la strada di una ribellione distruttiva e nichilista andando a rinfoltire il gruppo di “ribelli” bressoniani che annovera, tra gli altri, il Michel di Pickpocket, il Fontaine de Un condannato a morte è fuggito, il Charles de Il diavolo, probabilmente.
In maniera ossessiva e quasi maniacale, Bresson ripropone il medesimo schema: un personaggio che lotta contro il Male e, incapace di contrapporvisi, finisce per diventarne strumento, ubbidendo ad un oscuro sentimento di rivalsa, che è insieme disperazione e bisogno estremo di espiazione. Bresson una volta puntualizzò la sua visione esistenziale, avvertendo i suoi spettatori, sconvolti da una visione esistenziale apparentemente così tormentata, di non confondere mai il pessimismo con la lucidità. Tuttavia, appare difficile non vedere ne L’argent uno degli esiti più radicali dell’ossessione nei confronti del Male che impregna buona parte dell’opus bressoniano. Ingiustamente accusato per un crimine non commesso, abbandonato dalla moglie che gli tace pietosamente la scomparsa della loro figlioletta, Yvon resta solo, ormai incapace di legare con altri esseri umani: se il Michel di Pickpocket trova la sua redenzione nell’amore di Jeanne, se il “condannato a morte” Fontaine trova nel giovane Jost un compagno di fuga, il protagonista di quest’ultimo capolavoro bressoniano rimane interiormente intrappolato dal suo desiderio di vendetta, come la Maria Casarès di Perfidia.
Come in altre opere bressoniane, i moventi degli atti restano sospesi o oscuri: il regista ha spesso precisato che, per quanto riguarda i meccanismi narrativi dei suoi film o quelli psicologici dei suoi protagonisti, non si tratta di capire ma di sentire. È un punto cruciale in quanto è questo forse il motivo principale del lavoro certosino che il regista compie sui suoni e sui gesti. Durante un suo intervento, ispirandosi all’opinione dello scultore Auguste Rodin che, parlando della fotografia, la riteneva uno strumento che rimanda un’immagine menzognera, Bresson dichiarò che il suo uso del suono, che restituisce “un eccesso di realtà”, aveva lo scopo di aggiungere all’immagine quel sovrappiù di verità che le mancava, e di depurare il suono dell’iperrealismo di cui è impregnato. D’altronde, in uno dei suoi splendidi paradossi, a chi gli chiedeva se l’avarizia di dialoghi nei suoi film non fosse dovuta ad una sua nostalgia per il cinema muto, Bresson rispose di sognare invece la realizzazione di un “film senza immagini”, un’opera letteralmente al nero, composta solo di suoni e rumori tra cui il più incantevole di tutti: la voce umana.
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