“Lancillotto e Ginevra” di Robert Bresson: alla ricerca del sacro perduto
Che siano i sentimenti a spingere i fatti, non viceversa.
Robert Bresson
Lancelot du lac (questo il titolo originale), undicesimo lungometraggio di Robert Bresson, si ispira ai romanzi del cosiddetto ciclo bretone, scritti nel XII secolo, i quali ebbero in Chrétien de Troyes il loro massimo esponente. Con opere come Lancelot ou le chevalier de la charrette o Le Roman de Perceval ou le conte de Graal, Chrétien raccontava le vicende dei Cavalieri della Tavola Rotonda alla corte di Re Artù e l’innamoramento del coraggioso Lancillotto per Ginevra, consorte del sovrano, e la ricerca del Santo Graal, che Lancillotto fallisce per la sua impurità, costituita appunto dal desiderio amoroso verso una donna sposata.
Per un autore come Bresson, da sempre affascinato da temi che hanno al centro o sullo sfondo la religione cristiana, il Lancelot non poteva che essere di grande interesse. Lancillotto e Ginevra (che verrà proiettato martedì 4 aprile alle 20,00 all’ex Asilo Filangieri di Napoli) era infatti per il maestro francese il film della vita, quello che aveva sempre sperato di poter realizzare sin dagli esordi. E’, con Il processo di Giovanna D’Arco l’unico film di Bresson ambientato in un’epoca passata e lontanissima ma, come nel film del 1962, le intenzioni del regista non sono quelle di realizzare un film storico quanto quello di utilizzare la Storia per parlare del presente. Lancillotto e Ginevra si presenta come una nuova e straordinaria variazione sul tema della secolarizzazione e de-sacralizzazione in atto nel mondo moderno, sempre più lontano dalla grazia. Come in tutte le opere precedenti, Bresson opera una smitizzazione delle vicende narrate, che appaiono spogliate di ogni solennità, depurate di ogni vero pathos.
Il pensiero va subito al coevo Perceval di Eric Rohmer, opera in cui ancora resistevano l’incanto e la stupefazione verso l’epos cavalleresco: nel film di Bresson, invece, prevale un’atmosfera dimessa, quasi decadente, dove i cavalieri sono privi di qualsiasi fascino eroico e appaiono spesso nascosti dentro le armature, il che li rende simili e interscambiabili l’uno con l’altro. E perciò irriconoscibili. La stessa ricerca del Graal, motore dell’azione, perde la sua aura religiosa e viene ridotto a mero simbolo di un potere tutto materiale, in cui il possessore della preziosa coppa avrebbe la possibilità di utilizzarla per oltraggiare e prevaricare il proprio avversario.
La spiritualità, trasformata e piegata a pura lotta per il possesso, non trova modo di esprimersi neppure nel sentimento amoroso o in quello dell’amicizia: niente enfasi retorica nelle conversazioni tra Lancillotto e Ginevra, dove a prevalere sembra essere un fondo di rassegnazione, nessun legame forte tra i cavalieri arturiani di una tavola ormai deserta, fino all’omicidio del buon Galvano da parte dell’ignaro Lancillotto, mentre il malvagio Mordred briga contro di lui con un machiavellismo degno dello Jago shakespeariano. Il mondo descritto in Lancillotto e Ginevra è dominato dal clangore assordante delle armature che si scontrano durante i combattimenti cui fa da contraltare l’altrettanto potente silenzio di un Dio che sembra abitare tutt’altri luoghi. Ancora una volta, Bresson ci mette davanti a un mondo in cui il Sacro e la Grazia sembrano essere spariti, perduti, ormai lontani e irraggiungibili, e dove l’unica cosa che resta sono i corpi senza vita dei soldati sconfitti, nascosti sotto forma di ferraglia ammucchiata e priva d’identità.
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