Secondo un secolo, secondo se stessi: la mostra di 24 fotografi italiani del Novecento al museo M9 di Mestre
L’Italia dei fotografi. 24 storie d’autore è il titolo della mostra fotografica temporanea in esposizione fino al 16 giugno 2019 al Museo M9 negli spazi del terzo piano del centro di Mestre. La mostra, a cura di Denis Curti, raccoglie oltre duecento fotografie, a colori e in bianco e nero, di 24 fotografi italiani del XX secolo.
Olivo Barbieri, Gabriele Basilico, Letizia Battaglia, Gianni Berengo Gardin, Carla Cerati, Luca Campigotto, Lisetta Carmi, Giovanni Chiaramonte, Mario Cresci, Mario De Biasi, Franco Fontana, Maurizio Galimberti, Arturo Ghergo, Luigi Ghirri, Mario Giacomelli, Francesco Jodice, Mimmo Jodice, Nino Migliori, Riccardo Moncalvo, Ugo Mulas, Fulvio Roiter, Ferdinando Scianna, Tazio Secchiaroli, Massimo Vitali sono gli autori di una rassegna di scatti che compongono una sorta di antologia narrativa attraverso gli sguardi di autorevoli fotografi della storia italiana della fotografia. Ventiquattro finestre sul Novecento per ventiquattro progetti differenti. Uno per ognuno dei nomi esposti.
La mostra è integrata da un archivio documentario dedicato agli autori, formato da una selezione di circa cento volumi in libera consultazione e da un palinsesto di video-interviste e di documentari relativi alle testimonianze dei protagonisti. Il catalogo, edito da Marsilio Editori, presenta anche un testo introduttivo di Michele Smargiassi e un saggio di Denis Curti, autore delle schede critiche.
Il museo
M9 – Museo del ’900 è un museo multimediale e interattivo al centro del nuovo distretto di rigenerazione urbana che affianca il suo intento di innovazione culturale e tecnologica al commercio al dettaglio, all’intrattenimento e ai servizi. Inaugurato a Mestre il 1 dicembre 2018, è un progetto della Fondazione di Venezia per contribuire al rilancio e allo sviluppo della terraferma veneziana. Realizzazione e sviluppo di M9 sono stati affidati a Polymnia Venezia, società strumentale della Fondazione di Venezia. La struttura, la cui architettura è stata progettata dallo studio berlinese Sauerbruch Hutton, si articola su due piani, ciascuno diviso in quattro sezioni, e non prevede un percorso di visita predefinito, consentendo la possibilità di visitarla senza la necessità di rispettare un itinerario rigido che ne detti la comprensione.
Demografia e strutture sociali, Consumi, costumi e stili di vita, Scienza, tecnologia e innovazione, Economia, lavoro, produzione e benessere, Paesaggi e insediamenti urbani, Lo Stato, le istituzioni, la politica, Educazione, formazione e informazione, Cosa ci fa sentire italiani sono i titoli delle otto sezioni dell’M9.
Il tracciato multimediale dell’M9 si compone di strumenti divulgativi che sviluppano un viaggio nel tempo dall’Italia postunitaria a quella repubblicana, scandendo il suo excursus etnografico attraverso tre periodi precisi: quello dell’unificazione, quello fascista e quello dal dopoguerra ai giorni nostri. Fasi espositive, comparative e narrative si pongono lo scopo di restituire la storia d’Italia di oltre un secolo e mezzo offrendo ai visitatori un sistema di stimoli e curiosità in pillole, con la sensazione, piuttosto concreta, che la mappa di luoghi ed eventi pare privilegiare il racconto celebrativo e propagandistico di un paese-impresa, sottolineando ed enfatizzando, con particolare riguardo, alcuni dei momenti nodali dello sviluppo economico dell’Italia settentrionale. Nelle sezioni dedicate alle fasi storiche che vanno dalla fine della seconda guerra mondiale al boom dei decenni successivi, la rete interattiva dell’M9 mette in serie un diario romantico dell’Italia del cinema, dello spettacolo e dei media.
La mostra
Il sentiero fotografico della mostra sembra volersi in qualche modo allineare ai propositi dell’impianto museale ospitante, fissando gli scatti di momenti individuali e collettivi estratti da quell’intimità in cui l’istante si fonda con l’effetto in un grado postumo privo di tempo per cui la fotografia resta tra le arti più impiegate per farvi fronte, per raccoglierlo e, in certa misura, archiviarlo in un documento in grado di assorbire e distinguere differenti funzioni e diversi significati.
La follia impressa nelle istantanee di Gianni Berengo Gardin, autore, insieme a Carla Cerati (anch’ella presenta nel catalogo della mostra), del celebre reportage Morire di classe, libera la condizione raggelante degli interni manicomiali. Lo scatto di un fotografo che nella sua carriera ha colto il candore e la dolcezza di intimità amorose e sentimentali si è recato al fronte della follia reclusa al rango di condanna. Ancora oggi, le fotografie di Gardin rappresentano una documentazione fondamentale nel racconto delle drammatiche condizioni in cui per anni migliaia di persone sono state ridotte a un crudele isolamento.
Il realismo di Nino Migliori, invece, irrompe nel dibattito fotografico praticando l’immagine neorealista attraverso soluzioni sperimentali e, al tempo stesso, esprimendo il suo osservatorio tramite una forma metalinguistica. La “gente” (il termine compone e si ripete per i titoli di quattro progetti fotografici dell’autore romagnolo) di Migliori declina lo stivale peninsulare da nord a sud. Lo sguardo del fotografo bolognese si dedica alla periferia umana senza trascurare gli sfondi e le ambientazioni, consacrando la compiutezza di un’immagine tracciata da una trascrizione fotografica che assorbe reportage e narrazione, per un intendimento letterario e linguistico della fotografia. Intendimento esplicitamente esposto nella sezione a lui dedicata.
Con Mario Giacomelli, invece, la fotografia italiana approda a una spensieratezza dell’istante e a una potente frammentarietà dell’intimità. Laddove l’occhio coglie la gioia collettiva di un gruppo di giovani sacerdoti e di seminaristi – questo il tema scelto per la sezione riservata agli scatti del fotografo marchigiano – il nevischio vela con uno strato ulteriore i soggetti che, in alcune scene, si muovono da arlecchini, per un’immagine da cui emerge la purezza dell’emozione, contravvenendo, forse volutamente, al rigore impenetrabile dell’abito religioso. Io non ho mani che mi accarezzino il volto, così si intitola la raccolta di scatti di Giacomelli presso il seminario di Senigallia, rappresenta un momento della fotografia in una Italia fervente di nuove spinte popolari, anche rivolte alla possibilità di scoprire nuovi metodi di osservazione della cultura religiosa. Con Giacomelli, è l’occhio che partecipa a questo genere di esplorazione.
I frammenti estratti dal “secolo breve” negli scatti di Mario Cresci espongono un’anagrafica di volti riassunti in famiglia, in una sequenza logica in cui i primi piani sono intermediari tra la panoramica e il documento d’identità, per un interno familiare che scaglia un’immagine fiera e composta, in allerta sopra le vite di ogni soggetto. Un dialogo tra presenze e assenze per un’istantanea della coniugazione.
Il bianco e nero di Fulvio Roiter ha segnato un’epoca della fotografia e ha restituito una poetica dell’immagine pietrificata, elevata a un grado scultoreo dell’azione con una paralisi del movimento in pienezza di significati. Un Donatello con la macchina fotografica. Nella fotografia di Roiter – in alcuni scatti esposti nella mostra questo aspetto è visibile – si riunisce il soggetto e lo sfondo, l’impenetrabilità e il racconto. Un mistero pulsante regola una linguistica di segni che si armonizza in un meccanismo letterario in cui ogni elemento si distingue, si isola e si lega a tutti gli altri.
“Il mio vuoto, il mio togliere le persone, svuotare la scena da ogni riferimento quotidiano risponde a una esigenza profonda. Ripulire l’immagine per lasciare spazio solo a ciò che vuoi significare.” Mimmo Jodice
Il messaggio di Mimmo Jodice indirizza la fotografia a uno spazio d’azione intenzionale. Come in uno scenario da romanzo di Ermanno Rea, lo sfondo napoletano avanza le linee fino al proscenio. Talvolta, un apparente appiattimento realizza un’immagine asfissiata e asfissiante. E quando vi compaiono degli orizzonti, questi sembrano collocati lontanissimo, come se nello scatto di Jodice presenziasse un’attesa utile a dare sfogo alla volontarietà della fotografia di un autore che intende lo spazio come un volto.
Con Letizia Battaglia la fotografia italiana registra le immagini della mitologia nera del tragico siciliano popolato da armi nelle mani di bambini, dagli omicidi di mafia e da un’umanità condannata a una miseria senza fine. Uno stadio al di là della modernità, sopra ogni epoca. Fino alla fotografia del volto di Rosaria Costa, vedova di Vito Schifani. A occhi chiusi, con le labbra schiuse, diviso a metà dalla luce e dall’ombra. Un chiaroscuro su cui dialogano i due riflessi opposti dell’esistenza. Il segmento umano distingue il suo interstizio lungo un confine che nessuno sa se sia incontro o separazione.
Dopo essersi soffermati su alcuni dei fotografi esposti all’M9, non ci si può comunque sottrarre a uno sforzo che ripercorra la mostra nel suo insieme. Le fotografie della mostra restituiscono, se si vuole tentare di guardarle in un mosaico generale, la descrizione di un panorama umano in cui brillano la mondanità e la vanità di un’Italia all’insegna dello sfoggio e, al tempo stesso, in cui una miriade di angoli bui nascondono il pudore di un’umanità minore destinata a un’inconsapevole elaborazione dei momenti più provanti della sua condizione. Una serie di racconti dentro un grande romanzo dell’immagine in cui la fotografia testimonia la fusione a freddo tra l’interno e l’esterno, dove i due ambienti appartengono tanto all’esecutore quanto all’obiettivo, tanto allo stato d’animo dei suoi singoli osservatori quanto agli enigmi degli osservati. Quello che, forse, ogni giorno percorre le strade di quello che un giorno per qualcun altro significherà storia. Di certo, non più paralizzante e gravoso dei protagonisti che le mostre del futuro presenteranno.
In copertina, il ritratto di Rosaria Costa, di Letizia Battaglia