“Falchi” di Toni D’Angelo: delitti e castighi
Napoli, la città delle mille contraddizioni. Fortunato Cerlino e Michele Riondino sono Peppe e Francesco, due Falchi, poliziotti della sezione speciale della Squadra Mobile di Napoli. In sella alla loro moto, portano la legge tra i vicoli più malfamati della città, usando spesso metodi poco convenzionali. La loro vita, già ricca di tensione, viene sconvolta da una tragedia personale e professionale. In preda allo sconforto e assetati di vendetta, ingaggeranno una lotta senza esclusione di colpi contro una potentissima e spietata organizzazione criminale cinese (sinossi).
Dal punto di vista “storico”, i Falchi sono una Sezione speciale della Squadra Mobile, fondata a Catania nel 1974, con il compito di occuparsi soprattutto di microcriminalità. In una città come Napoli (ma sono presenti anche a Bari, Taranto, Palermo, Roma, Milano) li si può incrociare abbastanza facilmente nei vicoli, addentrandosi nei percorsi urbani più impervi, in borghese e in sella alle loro moto, e con l’espressione da duri. Il film ce li mostra subito in azione mentre rincorrono uno scippatore e lo immobilizzano usando le maniere (molto) forti. Tuttavia, dopo questo incipit folgorante e questa bella sequenza di inseguimento, Falchi, terzo lungometraggio di finzione di Toni D’Angelo (autore anche di due interessanti documentari, Poeti e Filmstudio Mon Amour), preferisce battere territori completamente altri rispetto a quelli della sociologia. Il film, infatti, più che ad un’opera come ACAB di Stefano Sollima, sembra guardare alle atmosfere del poliziesco di Hong Kong, eleggendo John Woo e Johnnie To a numi tutelari di tutta l’operazione, mescolando azione e melodramma, e preferendo dare risalto ai personaggi e alla storia piuttosto che presentarsi come fotografia della realtà.
Per questa ragione Falchi, prodotto dalla Minerva Pictures di Giancarlo Curti e da Figli del Bronx di Gaetano Di Vaio in collaborazione con Rai Cinema, è un’operazione più che apprezzabile nel panorama di un cinema italiano sempre più vampirizzato da commedie senza spessore, sovente interpretate dai comici televisivi del momento. Un ritorno al cinema di genere, quindi, che mette Falchi nella scia di altri riusciti tentativi recenti come Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti e Veloce come il vento di Matteo Rovere. Tra l’altro, la Bronx Film aveva già provato a battere questa strada nel 2013 con il meno fortunato Take Five di Guido Lombardi, già autore dell’ottimo Là-bas, premiato a Venezia con il Leone del futuro nel 2011.
Falchi ha i suoi punti di forza in una regia ambiziosa che mette in risalto e utilizza proficuamente i luoghi e gli spazi (i vicoli, la spiaggia, l’allucinante centro di “massaggi”, con una macchina da presa che osa inquadrature insolite e ricercate), in una fotografia molto bella, dai colori forti e accesi ad opera di Rocco Marra, in un montaggio serrato che aiuta a tenere desta l’attenzione, nell’interpretazione convincente di Fortunato Cerlino e Michele Riondino, nell’incursione in territori poco battuti. Il film convince un po’ meno invece dal punto di vista narrativo e alcune scelte destano qualche perplessità: nella parte iniziale si assiste, infatti, ad un accumulo eccessivo di eventi “forti” senza che i personaggi abbiano il tempo di elaborarli e lo spettatore di digerirli, così come forzato appare il piano simbolico che vede i falchi come (cani) combattenti, paragone sintetizzato in maniera troppo didascalica dal personaggio di Peppe nelle sequenze iniziali del film. Troppo insistite e ripetute sono infine le sequenze sulla tossicodipendenza di Francesco.
Comunque, al netto di qualche peccato veniale, la strada intrapresa è senz’altro quella giusta e Falchi resta un’operazione da difendere e sostenere, e un lusso che il nostro cinema deve potersi e volersi permettere. Infine, una curiosità: Nino D’Angelo, padre del regista e icona pop degli anni ’80, autore delle belle musiche del film, compare in un brevissimo cameo. Provate a riconoscerlo.
Salvatore Marfella
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