I fanciulli e l’Italia sconosciuta: lo straniamento nella poesia di Sandro Penna
di Marco Antonio D’Aiutolo
Omosessualità
Le loro brame segrete, le loro
selvagge vittorie sulla carne
si confidavano. Una notte
(avevano il giorno tutto, giorno
di prima estate,
vagato per la campagna
insieme) insieme
di stanchezza dormirono. All’alba s’incontrarono
i loro corpi nudi.
Fu una cosa del tutto naturale.
Mi è sembrato opportuno riprendere, dopo un periodo di pausa, l’excursus sugli autori omosessuali del Novecento italiano con un grande poeta, Sandro Penna, che – secondo il nostro Francesco Gnerre di Eroe negato – “ha cantato a voce spiegata, in una forma limpida e trasparente, un unico tema, l’amore omoerotico per i ragazzi”. E quale poesia poteva meglio esprimere questa voce spiegata se non quella dal titolo inequivocabile con cui ho introdotto il presente? Inserita nella raccolta di poesie, Stranezze, Omosessualità lascia emergere una consapevolezza che è affermazione orgogliosa di sé e del desiderio omosessuale come “una cosa del tutto naturale”.
L’opera poetica di Penna risale agli anni Venti (nel 1922) e si conclude negli anni Settanta. La vita… è un risveglio fu la poesia che – come dice il poeta stesso in un’intervista, dove esibisce il mito delle sue ingenuità e condizione di outsider – “io ho scritto per prima e in un periodo in cui nemmeno pensavo che esistesse la poesia… nell’angolo di un giornale… l’avevo scritta in quel modo, svegliandomi di notte al mare, dove non si poteva accendere la luce per le zanzare. Quasi nel dormiveglia vidi la mia calligrafia e non capivo che cosa avessi scritto; poi mi resi conto che era una poesia”. Ma in un articolo su Doppiozero (2017), Sandro Penna: un poeta della vita, Umberto Fiori ricorda che ciò di cui si compiace il poeta perugino, ovvero il suo essere stato “un giovanotto ignaro di letteratura, che solo per caso, dai giornali, apprende che ‘i nostri poeti più famosi erano tre: Saba, Ungaretti e Montale’”, in realtà è una leggenda. “Fin da giovane Penna si nutriva di letture importanti (Gide, Proust, Rimbaud, Wilde, Nietzsche, altri ancora), meditava sulla poesia e sull’arte (come risulta dai Diari) e scriveva versi.” Le sue prime prove poetiche (inedite) utilmente documentate nel Meridiano, mostrano “versi acerbi, dove il giovane autore si muove incerto, orecchiando la poesia dell’Ottocento e citando Poe, Baudelaire, D’Annunzio (per dir loro addio).”
Penna si caratterizza per la sua autonomia (o anomalia) poetica. Intorno a lui si sviluppano tendenze di vario genere (ermetismo, neorealismo, neoavanguardia), ma egli sembra fondamentalmente privo di qualsiasi rapporto con la realtà culturale circostante. “La sua poesia appare priva di ogni legame non solo con la Storia, ma anche con i dati biografici di rilievo e, ossessivamente monotematica, non appare scandita da alcuna evoluzione.” (F. Gnerre). Secondo Cesare Garboli: “Penna ha messo il mondo ‘tra parentesi’.” Per Giacomo Debenedetti, si è sottratto all’alienazione, alla condizione di schiavo dell’uomo contemporaneo imposta dal capitalismo a cui i marxisti danno il nome di imperialismo. Ciò ha reso difficile alla critica collocare Penna in una scuola o in una delle varie diramazioni della poesia del Novecento.
Tuttavia bisogna soffermarci sulla sua “monotematica” ossessione priva di evoluzione per cogliere i motivi di fondo del suo distacco. E in questo senso, oltre alla già citata Omosessualità, è interessante riportare una quartina altrettanto nota: “Sempre fanciulli nelle mie poesie!/Ma io non so parlare d’altre cose./Le altre cose son tutte noiose./Io non posso cantarvi Opere Pie.” Non si tratta solo di ciò che scrive ancora Fiori: “La poesia di Penna si distingue appunto (e forse si salva) per la radicale estraneità a ogni genere di ‘Opere Pie’; da intendersi non solo come valori ‘morali’ o d’altro genere, ideologie, istanze culturali, ma anche come richiami letterari, ammiccamenti intertestuali, paludamenti filosofeggianti.” (Doppiozero). In Penna c’è molto di più.
È risaputo che Penna fu “scoperto” da un altro grande poeta italiano omosessuale del Novecento, Umberto Saba. “Grazie al cui appoggio – ricorda Giovanni Dall’Orto – riuscì a pubblicare già durante il periodo fascista (il primo libro è del 1939), nonostante il carattere omoerotico e… pedofilo della sua opera”. “L’amore per i ragazzi è onnipresente […]. Nelle sue composizioni, Penna abbozza con pochi tratti una situazione, un pensiero, un ritratto. Fonte della sua ispirazione sono i ‘fanciulli’: adolescenti o garzoni; il suo desiderio (anche fisico) è però delineato con straordinaria delicatezza e pudore. Persino le poesie che non volle mai rendere pubbliche perché da lui ritenute ‘pornografiche’, si sono rivelate, dopo la pubblicazione postuma, castissime.” (www.giovannidallorto.com/biografie/penna/penna.html). Gnerre evidenzia che anche nel suo unico libro di prose, Un po’ di febbre (1973), una raccolta di brevi racconti e impressioni, senza un intreccio narrativo vero e proprio, i personaggi sono quasi sempre il poeta e i giovani, e quei ragazzi onnipresenti si mostrano diversi da quelli della nostra letteratura. Sono più vivi, più innocenti: arrossiscono di un rossore beato, se si masturbano, ridono, sono contemplati e amati come qualcosa di sacro e vitale. Ed è qui che la sua estraneità diviene anche il suo straniamento.
In un’analisi puntuale di Luca Baldoni, L’uccello alto nella notte: corpo e spazio (omo)erotico della poesia italiana del Novecento in The Italianist, 2006, si parla della caratteristica segnatamente peripatetica dell’io poetico penniano. Cosa significa? Si tratta di un io che agisce sotto il pungolo di un desiderio che lo porta a percorrere l’Italia in lungo e in largo: città, paesini, campagne, sempre pronto all’avventura con un bel ragazzo. Per cui lo spazio percorso non è mentale o speculativo; si svolge in un’infaticabile ricognizione di realtà locali precise che crea un panorama complessivo del paesaggio italiano nella parte centrale del secolo che rimane insuperato. L’Italia sconosciuta e anonima di Penna è parzialmente contigua alla Trieste di Saba: vista dal basso, dal punto di vista di realtà umili e “impoetiche” che sprigionano un tasso di psichicità molto elevato. Ma è anche sostanzialmente diversa. Il suo “io lirico” non trattiene la particolarità, la diversità del suo sguardo, ne fa motivo di celebrazione e riconoscimento di sé.
Nel fresco orinatoio alla stazione/sono disceso dalla collina ardente./Sulla mia pelle polvere e sudore/m’inebbriano. Negli occhi ancora canta/il sole. Anima e corpo ora abbandono/fra la lucida bianca porcellana. Anche questa poesia è significativa perché mostra un Penna che porta alla luce una serie di luoghi pubblici, di per sé ordinari (“il gonfio orinatoio”, gli “anonimi portoni”, le “anonime stazioni”, le “sale d’aspetto”, certi cinema…), che diventano ricettacolo di assidui incontri e frequentazioni di uomini che ricercano sesso con altri uomini. L’Italia di Penna è allora reale e, nel contempo, “straniata dalla prospettiva di un perenne cruising. Il sesso omosessuale abbandona il closet e popola soprattutto lo spazio urbano, generando un esplicito ribaltamento delle finalità socialmente accettate dei luoghi vissuti e attraversati”. (L. Baldoni).
Pertanto, oltre al fatto che è impossibile prescindere dall’omosessualità di Penna, come pure si è cercato di fare, per paura che il poeta potesse essere cacciato in un ghetto; e grazie a una rilettura di Roberto Polce – Penna rubato in Libertaria, 1983 –, dobbiamo affermare che egli ha rappresentato, per la prima volta nella cultura italiana, la voce di un mondo omosessuale con le sue ossessioni, i riti e il suo bisogno di esistere. “è una voce pre-politica, da un punto di vista omosessuale… la prima a distillare e ‘fissare’ nel suo canto il ‘sapere’ e la ‘cultura’ che la ‘comunità invisibile’ ha elaborato e tramandato di vecchio in giovane per generazioni.” Penna accetta la sua appartenenza a quel mondo, le sue “regole”, i codici di comunicazione, i tempi, i luoghi. Per cui, non è affatto un poeta fuori della realtà. Anzi, per dirla con Cesare Garboli – Penna Papers, nuova edizione ampliata – Milano: Garzanti, 1996 – “Penna è un poeta immerso nella storia. È un poeta ‘italiano’, che ci racconta e ci dice come è fatto il nostro paese. Nessun poeta italiano del Novecento ci parla mai di noi e dell’Italia; Penna sì, Penna che ha percorso tutta l’Italia – l’Italia sconosciuta, l’Italia anonima – con la febbre, si direbbe.”
Penna non opera, come pure ha osservato Pasolini, “in una terra di nessuno, dove tutto gli è tacitamente consentito”. Egli sa benissimo che nulla gli sarebbe consentito nell’Italia fascista prima e democristiana dopo, comunque omofoba. La deve percorrere appunto dal basso, “in senso inverso rispetto a quello dei più, in un attrito costante contro la normatività e l’immobilità a cui vengono consegnati i luoghi e gli spazi dalla morale dominante. Sfruttando le crepe, e partendo dalla periferia del sistema, dall’anonimo” (Baldoni). Per cui Penna ha un senso sicuro della realtà, che al lettore eterosessuale o poco accorto appare lontana e indecifrabile.
Ha ragione quindi Polce – continua Baldoni – quando ribadisce che la mancanza di dati biografici rilevanti nella vita di Penna hanno costituito un problema angosciante soltanto per i critici esterni, ma non certo per i lettori omosessuali: non difficilmente nelle poesie di Penna, anche nelle più depurate, ermetiche e universali, riconoscono paesaggi e situazioni di una storia profondamente e inequivocabilmente comune. E questa è un’enorme conquista della poesia di Penna che rimarrà imprescindibile per gli autori omosessuali che lo seguiranno.
Vorrei concludere il presente articolo lasciandovi una toccante quanto rarissima apparizione di Sandro Penna nel docu-film di Mario Schifano “Umano non Umano” del 1972.