Mafia in TV? Non scandalizziamoci di quello che abbiamo voluto
La grande tragedia riposa nell’ignoto silenzio dove finiscono tutte le cose. Soltanto chi è stato travolto e chi a causa d’essa ha perduto parlano il verbo del giusto lamento. E, non sia trascurato, anche questo diritto rischia di corrompersi.
Ormai da molto tempo certe istanze si sono trasformate in fenomeni di costume. La loro metamorfosi ha prevalso sulla loro origine. La lotta popolare alla mafia ne è un esempio. La mafia ha vinto in questo, soprattutto in questo. Il principio di indeterminazione di Heisenberg dice che se studi una cosa, la cambi. Se il merito dei movimenti popolari è stato quello di contribuire alla possibilità di portare alla luce il fenomeno mafioso (intendiamoci, soltanto dal punto di vista della sensibilità e della diffusione), poco a poco questa istanza si è trasformata in un territorio di caccia, allontanandosi da ogni genere di premura che ne garantisse zelo e rigore. La civiltà del consumo ha fatto il resto, traducendo tutto in economia. Nell’economia è compresa anche la responsabilità di aver creduto quasi a chiunque, contro ogni parere dei pochi realmente autorevoli, un parere indirizzato a diffidare di questo studio di massa.
Se la mafia parla in televisione, quello è il risultato dell’approvazione collettiva, sia essa diretta o indiretta, alla trasformazione in materia di consumo del fenomeno mafioso e antimafioso. Determinati prodotti editoriali, cinematografici, televisivi, hanno contribuito al formarsi di un fraintendimento che nel tempo si è trasformato in un nuovo manifesto della concezione di questo fenomeno. Aver trascurato la delicatezza e la complessità della parola mafia (e delle relative contromisure) ha agito sulla percezione generale. Gli effetti sono verificabili a tutti i livelli di istruzione. Quello che più spaventa è la trasversalità di questa operazione (si potrebbe definirla così solo per comodità di comprensione. In realtà andrebbero adoperati più termini per fornire una definizione più completa). Il breviario dell’antimafioso è un tascabile in dotazione a chiunque creda che tutto si risolva attraverso un’adozione di massa. Non a caso i più acuti ed esperti esponenti degli organismi inquirenti (italiani ed esteri) hanno sempre predicato la massima attenzione, suggerendo cautela e prudenza davanti alle incursioni emotive e spettaccolarizzate di chi viene tradotto come punto di riferimento e invece altro non è che sentinella e operatore, unità di produzione di una divulgazione indirizzata al consumo e non alla conoscenza reale di un fenomeno.
La promiscuità morale realizzata dalla televisione attraverso scelte che, apparentemente per ragioni editoriali (e solo a tanto ci si può fermare, limitandosi a una valutazione che non può oltrepassare questo margine per le ragioni che prima sono state avanzate), conserva un fondo di volontà. Questo dirottamento morale diventa causa di confusione morale.
Le interviste ai mafiosi, ai pentiti, a persone vicine ad ambienti criminali, sono sempre state diffuse. Il microfono alla mafia non è mai mancato, già prima del maxi processo del 1986 (anche le aule bunker spesso si sono trasformate in studi televisivi). E, volendo distinguere il significato dell’amplificazione all’interno di un’aula di tribunale da quello scientificamente predisposto dalle televisioni, non mancano casi altrettanto rivolti alla volontà di sottolineare anche aspetti puramente umani degli intervistati, pure fuori dalla loro veste mafiosa. Quando Enzo Biagi ha intervistato Luciano Leggio (al secolo Liggio), il boss di Corleone ha chiesto che di lui gli sarebbe piaciuto se qualcuno avesse potuto ammirare le tele dipinte durante gli anni del carcere. E, ancora, volendo risalire la casistica discutibile che spettacolarizza la relazione giornalistica con quella dell’indagine, i precedenti non sono affatto pochi. Nel 2011 una nota trasmissione televisiva ha mandato in onda, durante una puntata, un’intervista a Nicola Mandalà, boss mafioso di Villabate, velata da un’evidente anima fiction, al limite della credibilità.
Gli aneddoti da citare sono talmente tanti che si potrebbe riempire una videoteca, un archivio di filmati esclusivo, per una raccolta di interviste e contributi prodotti in decine di anni. Se un regista volesse montare un collage, avrebbe a disposizione una Hollywood di interviste e di documentari sensazionalistici. Non è esente l’editoria. Diversi capiclan hanno pubblicato libri di ogni genere. Un saggio di Bruno De Stefano, intitolato I boss della camorra, riporta l’aneddoto del libro scritto dal noto boss Luigi Giuliano, Le ciliegie del dolore, una raccolta di poesie introdotta da una prefazione del figlio di Salvatore Quasimodo. In quella occasione, se non fosse stato per il vincolo di restare in soggiorno obbligato a Campobasso, Giuliano avrebbe anche presentato i suoi componimenti presso la Feltrinelli. Inutile ricordare che dietro un libro c’è una casa editrice, che c’è una libreria e che c’è chi lo vedrà esposto.
Scandagliare animi controversi è sempre stato il mestiere dei più raffinati giornalisti, di scrittori, di indagatori della verità e della molteplicità dell’informazione, ma tutto si è sempre svolto, almeno fino a un certo punto, secondo modalità accuratamente osservanti la regola della separazione morale. Nessun giudizio, nessuna considerazione di ordine etico da parte dell’osservatore davanti all’osservato, ma, allo stesso tempo, tutto confinato, isolato, immunizzato, dentro una sorta di valore assoluto separato da ogni commistione che potesse turbare la sensibilità dello spettatore.
Non bisogna scandalizzarsi di quello che noi stessi abbiamo determinato. I media si muovono secondo le norme di mercato, talvolta creandone di nuove, ma sempre con l’orecchio teso al movimento di base. Lo sviluppo tecnologico, l’ipertrofia del sensazionalismo e della vanità hanno prescritto nuovi metodi. Sono metodi che riescono ad attirare l’adesione anche da parte di chi crede che sia sufficiente liberare lo scandalo per tutelare la presunta sacralità dell’istanza. Spesso, però, anche la tragedia privata entra nel copione. È un io di massa, svuotato e smarrito, che se ne va sotto una tempesta di stimoli e di sollecitazioni che impongono un’obbedienza della quale non si conosce la provenienza dell’ordine. È il pensiero a dover obbedire. Lo scandalo è soltanto il riflesso condizionato da questo smarrimento. Nel corso del tempo, paradossalmente, è diventato quasi un luogo in cui rifugiarsi. Le emergenze dell’intelletto possono anche tramutarsi in prigioni. La grande letteratura ha sempre insegnato che esiste una raffinatezza alla quale sfuggire.
Non bisogna scandalizzarsi di quello che noi stessi abbiamo determinato. Si rischia che pure lo scandalo diventi un rituale pronto per essere assorbito dai protocolli della civiltà di consumo. Nicolás Gómez Dávila ha scritto che “Il rituale dello scandalo è convenzionale quanto il rituale dell’encomio.”