L’universo ‘basso’ e l’io poetico nel desiderio (omo)erotico della poesia del Novecento – Seconda Parte
di Marco Antonio D’Aiutolo
Ho concluso l’articolo precedente focalizzando l’attenzione sull’immagine finale del Ganimede di Saba che, rapito da Zeus sottoforma di aquila, si bagna. Che si tratti di orinare o eiaculare poco importa, conta il fatto che la poesia porti una serie di istanze in sé riprese e sviluppate dai poeti successivi, da Sandro Penna a Pier Paolo Pasolini e Dario Bellezza. La loro poesia “proprio nella sua accezione di poesia del corpo, dell’eros, e dei loro paesaggi, è stato il principale veicolo di importanti istanze della modernità che la cultura italiana ha recepito… con estrema lentezza.”
Così si esprime Luca Baldoni nel saggio di cui ho deciso di parlare con i miei due contributi, ‘L’uccello alto nella notte’: corpo e spazio (omo)erotico della poesia italiana del Novecento. Egli spiega che quegli autori “hanno combattuto una doppia battaglia: per il diritto all’espressione di un desiderio proibito e per un modo di stare al mondo, di dire le cose, di dirsi, che apre nuovi orizzonti al panorama culturale italiano nel suo complesso.” Poi aggiunge che la scelta del titolo, parlare “di spazio e corpo (omo)erotico della (e non nella) poesia italiana del Novecento”, è dipesa dal fatto che, con la prospettiva omoerotica, la poesia ha finalmente un corpo, principalmente maschile, e un immaginario urbano erotico. Per quanto l’accademia italiana continui a ostentare indifferenza verso l’espressione dell’amore tra persone dello stesso sesso, “l’omosessualità è una cifra assolutamente essenziale della nostra modernità.”
Baldoni getta uno sguardo complessivo alla nostra lirica moderna, refrattaria verso le tematiche legate al corpo perché il desiderio eterosessuale, per secoli al centro del nostro sistema poetico con funzione iper-idealizzante, ha risentito della crisi generale del sistema stesso nel corso di tutto il Novecento. A volo d’uccello, egli prende come esempio Montale, il canzoniere amoroso per Clizia, per cui il poeta “fa ricorso a un apparato retorico e ideologico che rimonta sino allo Stil Nuovo”: la figura femminile è eterea, le parti del corpo menzionate sono “la fronte, sede del pensiero, e le ali spezzate, simbolo stesso del verticalismo della poetica che essa incarna”; lo stesso pensiero istintuale sarà “sotto la cifra di un allegorismo che non si permette un’attenzione per il corpo stesso”. Ma la dicotomia tra desiderio eterosessuale che fatica a trovare modi di espressione e omosessuale è riscontrabile anche in Saba: perfettamente in grado di rendere l’avvenenza e la forza del corpo maschile, si mostra circospetto nel cogliere quello femminile. “Il corpo della moglie Lina viene infatti sentito come corpo generatore, corpo di madre, ma non come corpo erotico.” Manca di lessico e immagini che vadano “oltre la sua funzione di repositorio di un’anima. Nelle poesie su Lina l’eros si fa strada simbolicamente, nell’immagine del suo ‘rosso scialle’ che ricorda la figura di Carmen, ma rimane appunto a livello di allusione, di emblema, senza dar vita a nessun tipo di ricognizione dell’entità corpo in sé.”
Di tutt’altro genere, diretto e carico di fermento è il “bagnare” incontrato ne Il ratto di Ganimede e che ritroviamo anche nella produzione di Penna dove sono numerosi gli esempi di enfants qui pissent. Due tra tanti: ‘Ma il mio dio se ne va in bicicletta/ o bagna il muro con disinvoltura’ e ‘Un ragazzo si stacca dalla mamma/ e piscia verso il coro dei soldati/ su campi desolati lieto e triste’. Essi si differenziano solo nella scelta lessicale, il primo ricorre all’eufemismo sabiano, l’altro usa la parola volgare o colloquiale acquisita nel dettato poetico; ma esprimono uno sviluppo rispetto a Saba che si era spinto in basso lungo il corpo, ne aveva scoperto le natiche e le gambe e si era solo avvicinato, senza nominarli, agli organi e alle funzioni genitali. Penna, d’altro canto, oltre alla nudità totale, con un’attenzione alla genitalità, porta al centro della poesia, contigue alle immagini di orinazione, anche quelle di masturbazione: ‘Forse l’ispirazione è solo un urlo/ confuso. Ma entro le colonne/ della legge, ridendo si masturba ogni fanciullo.’ Assistiamo dunque “a un decisivo ampliamento di repertorio sia lessicale che di situazioni, ad una incisività di rappresentazione che è una vera e propria rivoluzione del comune senso del pudore poetico.” Per questo “le infrazioni che l’‘ingenuità’ penniana si permette… aprono una finestra sulla sessualità gay e i suoi percorsi assolutamente anticipatrice.”
La stessa scandalosa figura di Pasolini – ricorda Baldoni – si manterrà al di qua delle licenze sperimentate da Penna. Non si può negare la sessualità pasoliniana, motore del suo agire poetico, ma “assistiamo a minori scossoni sia sul versante del lessico che su quello delle situazioni.” Tuttavia, a parte il dettaglio erotico a cui è più affezionato, “il ciuffo dei ragazzi”, il topos di Pasolini che fa eccezione è il ‘pacco’, “promessa di piacere contenuta tra le gambe dei ragazzi.” Un’immagine che costituisce una tappa di avvicinamento importante verso la rappresentazione del pene in poesia. Mai nominato in Saba, neppure per allusioni (“gli è sufficiente dire ‘gambe’ per indicare tutto quello che si trova al di sotto della vita. Dice ‘bagnare’ e intende anche ‘venire’”), compare in Penna solo eufemisticamente: ‘Nella mano stringeva il suo più caro/ oggetto’; ‘Poi fu una cosa povera, avvilita,/ nascosta da una mano, il segno della vita’. In Pasolini fa da protagonista. ‘Vanno verso le Terme di Caracalla/ giovani amici, a cavalcioni/ di Rumi o Ducati, con maschile/ pudore e maschile impudicizia,/ nelle pieghe calde dei calzoni/ nascondendo indifferenti, o scoprendo,/ il segreto delle loro erezioni…’; ‘le gambe larghe, il grembo in avanti,/ si agitavano come in un atto di coito/ con gli occhi al cielo.’
Sono “innovazioni che si fanno strada tra forti resistenze sia per ragioni esterne (basti pensare all’esperienza di Penna con la censura, alla decisione di Saba di pubblicare Ernesto solamente dopo la sua morte, ai numerosi processi per oscenità intentati contro Pasolini) che per fattori interni relativi alle convenzioni aristocratiche e idealizzanti del genere lirico.” A metà anni ’50 abbiamo le prime manifestazioni di cambiamenti di costume, più marcatamente distese dopo il ’68 e la contestazione. Ma con gli anni ’80 “il comune senso del pudore avrà ricevuto dei profondi scossoni anche sul versante poetico” al punto che Dario Bellezza “potrà attingere immagini di masturbazione dal repertorio penniano senza calarle in un contesto onirico, ma in una realtà più torbida e letterale”. ‘Di là ti masturbi senza lode per la tua masturbazione, per prendere un esempio. In lui la parola colloquiale (e non le circonlocuzioni: ‘oggetti’, ‘cose’, ‘sessi’ e ‘grembi’) avrà diritto di cittadinanza nel dire poetico: “così che il cazzo, o uccello che dir si voglia, sarà finalmente nominato come tale”. ‘L’uccello alto nella notte, le maschere/ dell’erezione, il dolore; tutto ciò/ che mi sarà rubato.’
Secondo Baldoni, a questo corrisponde contemporaneamente l’affrancamento – a mio avviso, in linea con l’idea di Esistenze Affrancate – dell’io lirico che si afferma sulla pagina e si comunica al lettore. Già in Saba abbiamo visto un io poetico assai diverso da quello tradizionale. In Versi militari il momento di liberazione psicologica è quello in cui il poeta riconosce il suo corpo, se stesso in quanto corpo, e supera le resistenze idealistiche e sentimentali caratteristiche della sua produzione precedente. “Al poeta sognante e sentimentalmente leopardiano della prima raccolta, le Poesie dell’adolescenza e giovanili, se ne sostituisce uno che si stupisce della forza animale delle proprie gambe.” Anche Penna sa di avere un corpo, non solo nominato, “ma che si manifesta nella funzione dell’eiaculazione”: ‘Ho puntato la brama in ogni luogo./ Sotto la pioggia ho perduto il mio seme’; ‘il mio sesso sussulta e si nasconde’. Il fenomeno in Pasolini, sottolinea Giovanni Giudici, citato da Baldoni, “è addirittura macroscopico”: l’autore è presente, non come un intruso che non vuol farsi notare, ma come protagonista corporeo. Sarà comunque ancora Bellezza a infrangere gli ultimi pudori lessicali, conducendo le istanze dei tre, di cui sopra, in un contesto mutato. Egli ci offre “una rappresentazione del poeta che si sveglia al mattino in termini puramente e colloquialmente fallici: ‘Per risvegliar mattina la mia/ inedia salto su a cazzo dritto verso/ il mondo’.”
Negli autori, presi in considerazione da Baldoni, si arriva alla creazione del corpo maschile come oggetto erotico, che acquista cittadinanza nella nostra lirica moderna e con un discorso che, per non rimanere puramente speculativo, deve essere accompagnato da innovazioni puntuali, da un ampliamento dello spettro lessicale relativo alle sue parti e funzioni. Secondo il saggio analizzato, “questa doppia infrazione, dire il corpo e allo stesso tempo dirlo da un punto di vista omoerotico, costituisce… una delle cifre più evidenti della poesia italiana del Novecento”; ma che va al di là delle tematiche legate all’identità e all’orientamento sessuale. Non a caso, Niva Lorenzini, in La poesia del Novecento, parla di “forza del pensiero sensoriale, lo spessore del corpo, delle pulsioni oscure, sotterranee, con la loro autonoma pronuncia”: una sfera rappresentata a pieno dalla linea che da Saba giunge a Bellezza e che è stata marginalizzata lungo tutto il secolo, se non apertamente osteggiata, dall’estrazione idealista della cultura italiana. Rimane che è proprio grazie a questa forte presenza omoerotica in poesia che la nostra letteratura arriva a recepire istanze precise di rinnovamento altrimenti ignorate dalla maggior parte della nazione e dei suoi apparati culturali.