STRANE STORIE all’ombra della Mole – Intervista doppia a Flavio Troisi e Daniele Nadir
Sul finire degli anni ’90, il web da quasi un decennio era diventato il brodo di coltura ideale per autori esordienti e fanzinari, grandi crocevia di informazione tematica si concentravano nei portali e i blog affermavano la loro identità trasversale all’editoria tradizionale. In controtendenza a questa corsa al digitale, un gruppo di giovani scrittori torinesi si misurava con l’esperienza redazionale di una rivista promettente e coraggiosa e rigorosamente cartacea.
Strane Storie – rivista di narrativa macabra e fantastica, colonizzava un’esigua nicchia di mercato poco frequentata dalla narrativa nostrana, per proporre con l’entusiasmo degli absolute beginners una serie di nuove leve del weird più eterogeneo e inclassificabile, in un cocktail editoriale in cui trovavano spazio racconti, interviste e curiosità, sempre all’insegna del bizzarro e del sorprendente.
Nel suo breve ciclo vitale, partito con una sponsorizzazione universitaria per passare in autonomia alla distribuzione nazionale e infine terminato con un’uscita one shot con le edizioni Pavesio nel 2003, Strane Storie ha incrociato giornalismo, critica letteraria, sperimentazione grafica e altri linguaggi lasciando un segno nel cuore degli appassionati con un pugno di numeri diventati rarità da collezionisti. Abbiamo incontrato due fondatori del gruppo storico di redazione, Flavio Troisi e Daniele Nadir, per farci raccontare la storia e i retroscena di un’avventura figlia della grande tradizione pulp degli anni ’30, ma paradossalmente troppo in anticipo sui tempi per poter durare.
Una domanda multipla per raccontare la rivista a coloro che non hanno avuto modo di conoscerla nel corso delle sue varie incarnazioni. Com’è nata l’idea di produrre Strane Storie e in quale fortunato contesto ha potuto vedere la via della pubblicazione?
Daniele Nadir:
Abbiamo iniziato in una cantina: un vecchio divano, qualche bottiglia e buona compagnia giù per scale che sapevano di muffa, tanta atmosfera e creature che osservavano nel buio, più reali che metafisiche. Ci si raccontava storie nostre o di altri. Si calcava la mano con le critiche e con le passioni del momento. Il nocciolo duro del gruppo, qui, in una foto ritrovata da poco, in versione Iene (era Halloween o forse Carnevale). Scoprivamo autori nuovi da leggere e ci si metteva in gioco alternando meraviglia e critiche spietate, questo prima del via, e per parecchi anni a venire. Avevo chiesto e miracolosamente ottenuto dei fondi all’Università di Torino. Ai tempi scrivevo ancora con due dita, per quanto veloce. Era il ’97, un millennio e due ere geologiche fa. I social come li immaginiamo non esistevano, c’erano le lire e i telefoni a gettone. Con quei primi numeri abbiamo imparato a lavorare insieme, scintille o meno (io, Federico D’Agata, Flavio Troisi, Luigi Terzi ai disegni, Alvin Crea alle foto, e presto si sarebbero aggiunti Mattia Ottolini ed Elena Golzio). Strane Storie ha avuto una gestazione di tre numeri sotterranei, fra le aule o spediti. Nuovi racconti arrivavano a decine da angoli improbabili d’Italia, lettere, richieste di abbonamento. La scelta (obbligata) era: mollare o alzare la posta.
Flavio Troisi:
Strane Storie nacque in un contesto universitario, quando ottenemmo fondi dalla Facoltà di Lettere e Filosofia, e se non erro, per la creazione di una rivista letteraria. Ci aggiudicammo la modesta somma e producemmo così i primi numeri. Mi pare che in seguito riuscimmo a raggranellare qualcosa anche da parte di Economia e Commercio. Demmo così i natali al primo numero nella sua prima incarnazione. Ma prima ancora, e più importante, l’idea maturò in un contesto di giovani appassionati di scrittura creativa e illustrazione, un circolo che si riuniva regolarmente in un “infernotto” del sottosuolo torinese (ossia una cantina) per leggere e scrivere.
Al momento della nascita della rivista, qual era il vostro rapporto e grado di esperienza con la scrittura? Cos’è cambiato ora?
Daniele Nadir:
All’inizio eravamo noi stessi esordienti. Di sicuro l’esperienza della cantina – che ci dava scadenze, pubblico e disciplina, e che soprattutto ci riservava bastonate a ogni giro di danza – è stata indispensabile. Da quei giorni sono passato a romanzi corposi, a un approccio diverso alla narrazione, cosa che solo scrivendo decine (centinaia) di racconti può succedere. Inoltre, sei quel che mangi e dopo di allora ho rosicchiato autori che non immaginavo. Affila i denti.
Flavio Troisi:
Ci eravamo conosciuti frequentando lo stesso corso di scrittura creativa (e poi dicono che non servono a niente). La nostra persistente amicizia ha radici artistiche. Eravamo tutti alle prime armi, chi più chi meno. Poi qualcuno ha preso la strada della sceneggiatura, del copywriting, qualcuno ha pubblicato saggi, romanzi, qualcun altro ha cambiato strada. Oggi, siamo persone con impegni differenti. Parlo per me: sono un ghostwriter al servizio di editori, professionisti, privati… ma ogni tanto pubblico anche qualcosa a nome mio.
L’approdo alla distribuzione nazionale è stato un salto di qualità impegnativo. Potete raccontarci il passaggio alla dimensione editoriale autonoma di Strane Storie?
Daniele Nadir:
Negli ultimi mesi del ’99 Fede era a Princeton, a pochi giorni da una laurea in Fisica Nucleare, ma cambiammo le priorità e aprimmo Lo Stregatto editore. La fusione fredda può attendere e a gennaio del 2000, senza alcuna cognizione del mercato o di cosa volesse dire fare una fattura (tristemente vero), siamo usciti in tutta Italia fra edicole, librerie e fumetterie con 8 distributori diversi. È iniziata con 3000 copie vendute (saremmo poi usciti dalla distribuzione nelle edicole su scala nazionale stabilizzandoci fra le 1200 e le 1500 copie a numero), approccio e risultati ottenuti in totale incoscienza e nessun tempo a disposizione al di fuori della preparazione del numero a venire, di tre mesi in tre mesi, una costante che ci ha accompagnato sino alla fine, 10 numeri più tardi. Abbiamo iniziato chiedendo fondi alla Regione, che ci ha fornito più o meno la copertura del numero uno. Per far quadrare i conti nei ritagli di tempo e per un paio d’anni, io e Fede abbiamo realizzato una fanzine horror per una catena di locali trucidi e divertenti, i Transilvania Anno Domini. A mancarci era la promozione, il lato social e quello commerciale, ma parlavamo con storie illustrate, editoriali, disegni che infestano, miti e recensioni e qualche sferzata extra, di cui vi dirà Flavio. Flavio che leggeva per primo i racconti nuovi – scatoloni pieni – e dava il via a dibattiti sanguinosi. Ogni volta, a fatica, trovavamo storie sufficienti a chiudere il numero successivo, da limare e poi illustrare, far splendere. Centinaia, ogni mese, quelli scartati. Fra montagne di storie (e disegni) di colpo scoprivi autori notevoli, a volte sorprendenti, e chi scriveva bene è sempre stato grato per i nostri editing, e non è scontato. Condividevamo l’amore per le loro storie senza pietà e anche di fretta non eravamo indulgenti gli altri, tanto meno con noi. È stato totalizzante e divertente, e in due anni e mezzo tanti si sono aggiunti alla penna e ai disegni, o semplicemente seguendoci, numero per numero, alle fiere (Lucca, soprattutto). È stato un momento luminoso ed è finita per consunzione, nel senso (anche) bello del termine: in tanti hanno dato tutto, il meglio, insieme, prima che la realtà chiedesse il conto. Di sicuro non sapevamo passare all’incasso – né ne avevamo il tempo – quel tanto che sarebbe bastato a mettere in attivo un progetto che vendeva bene ma ci mandava solo in pari con le spese. E le giornate non avevano 37 ore. E altri progetti chiamavano.
Flavio Troisi:
Daniele e Federico D’Agata furono i finanziatori dell’operazione, e di questo va dato loro merito. A un certo punto, considerata l’inondazione di racconti che ci arrivavano da tutta Italia, decidemmo di uscire nelle librerie e perfino nelle edicole. E così fu. Oggi sembra impossibile, ma arrivammo a vendere 1500 copie, verso la fine dell’esperienza, che comunque non riuscimmo a gestire in modo sostenibile. Giovani, inesperti, molto in gamba ma anche alle prime armi. Daniele può spiegarlo meglio di me.
La vostra rivista si è basata su un parterre di nuovi autori, spesso alle prime esperienze, ma sempre di talento. Come avete effettuato questa opera di scouting? A quali canali vi siete affidati?
Daniele Nadir:
Lascio la parola a Flavio, ma per lo più Strane Storie si promuoveva da sé con un invito in terza di copertina. Non trattenevamo i diritti di quanto pubblicato, a seguire qualche dettaglio e un monito, sempre utile. “I manoscritti di origine infernale, celeste o in qualunque altro modo ultraterrena, saranno rispediti al mittente attraverso i canali ratificati dagli accordi di Avignone. I trasgressori saranno puniti.”
Flavio Troisi:
Il canale principale era la Posta Italiana. Considera che all’epoca le email non erano ancora il mezzo pervasivo di oggigiorno. Ricevevamo plichi cartacei e dischetti da 3,5 pollici. Io ero l’incaricato della prima scrematura. Leggevo tutto e cassavo il 99% dei racconti. L’1% superstite passava quindi di mano a Daniele e Federico. Lo scouting era tutto qui. Selezione dura, nessuna pietà e altissima considerazione per chi superava il test di ammissione.
Quali sono i risultati editoriali di cui andate più fieri come redattori?
Daniele Nadir:
Un paio di racconti e di autori sono stati ganci ben assestati, ma credo che il valore di Strane Storie fosse corale: le storie erano forti e ben limate, e le illustrazioni a volte erano belle, ma spesso maledettamente riuscite, tutt’uno con il racconto. Il risultato era una quantità di voci diverse e coordinate, sovrapposte in 64 pagine con peso specifico marziano. Quello che chiedevamo era solo il tuo racconto migliore. Se funziona, anche noi daremo il nostro meglio, promesso: era galvanizzante. E pre-social, con tutti i suoi pro e i contro. Di certo era tangibile carta stampata e la cura nei dettagli e la distribuzione non ne facevano una fanzine, ma una rivista (distinzione snob e ottocentesca, ci sto). Soprattutto, su quelle pagine una comunità stava crescendo, spontanea, vorace e tenace, come funghi fosforescenti dentro qualche grotta sperduta del Sud America.
Flavio Troisi:
Una rivista che qualcuno ancora ricorda e rimpiange, numeri non indifferenti, aver preso parte a un progetto artistico che ha pubblicato lavori eccellenti e diversi autori che oggi continuano a far parlare di sé. E sono fiero che la nostra amicizia sia ancora viva. Avere amici così oggi non è affatto ovvio.
Nel giro di un ventennio circa, la vita editoriale del fantastico e del weird in Italia è molto mutata, grazie alla aumentata presenza di realtà editoriali di settore (vedi Hypnos, Dagon Press, Zona 42, etc.) e il supporto del web coi suoi blogger e le varie testate on-line. Il vostro pionieristico lavoro nel campo contro quali difficoltà o pregiudizi è incappato maggiormente, tiepido interesse del pubblico per un genere troppo di confine? Scelte sbagliate dovute a inesperienza? Vostre crisi personali?
Daniele Nadir:
Riguardo al genere: ovviamente era una gioia scorrazzare ai confini della realtà. Lavoravamo letteralmente sotto un immenso poster che avevo appeso al soffitto, e l’occhio della locandina del film ispirato alla serie ci guardava oltre a una porta spalancata sullo spazio… ma scrivere storie di genere non era un valore a sé, tutt’altro. È limitante. L’idea era di giocare nel campo “del macabro e del fantastico” ma contaminando le falde il più possibile. Questo non ci ha fatto sentire chiusi in quei confini, anche se certo, sì: eravamo una realtà piccola. Di sicuro mancava un adulto nella stanza, commercialmente parlando. È stato intenso – credo per tutti – quasi sempre. Vorrei aver avuto all’inizio la testa che ho ora, ma molto di quel che ho fatto dopo lo devo a quest’esperienza. Come per la scrittura, “quei demoni lungo la strada o li frusti tu o non li frusta nessuno”. Citazione a braccio dall’introduzione di McDonald ad A volte ritornano di King: quattro pagine con tutto quel che devi sapere sulla scrittura, al via.
Flavio Troisi:
L’interesse c’era, ma il nostro metodo di lavoro era dettato da fin troppa passione, poi mediata da pragmatismo ed esperienza. Le discussioni sono state troppe e troppo accese. Come ho detto eravamo giovani e intransigenti. Anche fra di noi. Teste dure, teste creative.
Parliamo di Preston Penn, dei vari mostriciattoli che affollavano le pagine della rivista e soprattutto della misteriosa e affascinante Giulia Dea, le cui critiche hanno ammaliato file di lettori. Potete raccontarci come sono nati? C’è qualche aneddoto particolare a riguardo?
Daniele Nadir:
Tutto era condiviso, negli intenti generali o sezionato nei dettagli, ma i mostri che infestavano le riviste erano più creature mie e dei due illustratori che diedero loro vita, Elena Golzio e Luigi Terzi, Nina e Gigi, mentre per i segreti insondabili di Giulia Dea passo la palla a Flavio.
Dunque: Preston Penn, l’anfitrione di Strane Storie. Una sorta di Peter Pan malvagio ispirato a un racconto di Thomas Ligotti in cui il protagonista di una serie di libri per l’infanzia tormenta la sua autrice (che forse è solo matta, chissà). Preston Penn: un Federico in maglia a righe e occhiali scuri, sempre dodicenne e genuinamente malvagio. Preston è lo spirito che infesta la rivista, un camaleonte a strisce che salta fra le pagine scimmiottando le sembianze di protagonisti e comprimari, molestando le scene madri dei racconti e interpretandoli in libertà accompagnato da una famiglia di creature che un numero dopo l’altro si aggiunsero in un gioco che allacciava gli estremi della rivista nello stesso cappio.
Flavio Troisi:
Giulia Dea ero io, né più né meno. Assumevo la sua identità per stroncare e suggerire, ma soprattutto per stroncare. Indubbiamente era un personaggio che sapeva ammaliare, con quel suo piglio sadomaso. Ci siamo fatti tante risate. Giulia Dea nacque anche per dare voce alla frustrazione di un redattore che leggeva tonnellate di racconti scadenti e si sentiva scoppiare la testa.
Pensate che oggi ci sia spazio, opportunità e interesse per la rinascita di una testata come Strane Storie? Avete mai pensato di riproporla ancora dopo l’ultima incarnazione con la Pavesio comics?
Flavio Troisi:
Con Pavesio riuscimmo finalmente a pagare gli autori. Questo fu il lato positivo e va dato credito alla Pavesio che ci investì del suo. Il lato negativo fu… be’, dopo il primo numero l’editore tirò i remi in barca. Non so che aspettative avesse in termini di vendite, ma si sollevarono anche questioni creative. Diciamo che la sua gestione entrò in conflitto con lo spirito originale della rivista, che era guascone ma anche molto intransigente sulla qualità artistica. Infine lui volle a tutti i costi firmare la copertina, contro il parere della redazione. Così facendo, per quanto ci riguardava, violò i termini dell’accordo che avevamo siglato, in base al quale a noi spettava l’ultima parola sulla direzione creativa. Oggi di riviste ce ne sono diverse, soprattutto online, ma qualcosa di interessante nasce anche in cartaceo. Spero che prosperino, che selezionino duramente gli scritti e che possano pagare gli autori, anche poco, o almeno, come era nostro costume, che non si approprino dei diritti d’autore. Non credo che riproporrei Strane Storie, oggi. Si va avanti, non indietro.
Daniele Nadir:
Sì e no. Mi spiego. Strane Storie come fu allora, limata, illustrata e su due colonne – ottocentesca, a modo suo – non avrebbe vita oggi. Non così, né soprattutto da sola. Ma anche se andrebbe ripensata unendo contenuti digitali e cartacei, credo ci possa essere spazio per un prodotto che ricopra quella funzione: una piazza antologica e corale, curata e, sempre, almeno in parte, stampata. Ho visto negli anni qualche rivista di alta qualità ma con grafica e pretese di nicchia, prodotti esclusivissimi con copertine in pelle di drago certificato, e fanzine battagliere ma troppo autoreferenziali. Poi, lo ammetto, mi sono perso nei miei mondi e di certo ho mancato un’era geologica di nuovi narratori italiani. Dopo aver scritto Lo Stagno di Fuoco (quattro anni serrati di scrittura, uno dei motivi per cui Strane Storie ha chiuso) avevo pensato di rilanciare una nuova versione per rivista e casa editrice. Era il 2006 o il 2007 e al tempo ognuno era preso da nuovi lavori. Già allora l’approccio sarebbe stato molto diverso e in sei mesi fu preparata una collana di sei volumi (compresa una riedizione di Strane Storie). Poi un distributore romano tolse l’appoggio che aveva garantito e fu troppo. Troppa fatica ripartire da zero su quel fronte fondamentale dopo aver allestito tutto il resto, troppe poche risorse. Così ho preso un’altra via, ed è andata bene. Ora, tornando alla narrativa, sto lavorando all’uscita del mio secondo romanzo, La Clavicola di San Francesco, un’occasione per tornare a riaffacciarmi anch’io, di nuovo, fra le strane storie italiane.
Per chiudere con un sorriso facciamo un gioco, una sorta di Fantacalcio letterario. Come immaginereste un menabò ideale della rivista in versione 2019? Potendo idealmente scegliere chiunque, chi vorreste in squadra tra emergenti e affermati, e in quali ruoli?
Daniele Nadir:
Passerei la mano a Flavio: vivo un po’ fuori del mondo, troppo per comporre una formazione attuale e nostrana che segni due reti buone in un derby con undici giallisti o undici barbuti scrittori di simpatiche crisi di mezza età.
Flavio Troisi:
Oggi lo scenario è completamente diverso, il web, Amazon, gli ebook, i social hanno cambiato tutto. Ci sono autoproclamati autori un po’ dovunque. Per lo più Giulia Dea li stroncherebbe, ma alcuni avrebbero il suo plauso e a dire il vero sono più di quanti si immagini. Io so chi vorrei chiamare a bordo, sono persone che seguo e con cui comunico sui social, che ho conosciuto di persona, che hanno da insegnare. I talenti non mancano. Ma oggi c’è bisogno di Strane Storie? Non lo so, certamente servirebbe il rigore che la contraddistingueva.
A conclusione di questa chiacchierata, salutiamo e ringraziamo i nostri ospiti augurandoci di rivederli presto insieme in qualche nuova (e strana) scommessa letteraria.
Daniele Nadir e Flavio Troisi:
Grazie di tutto Fabio: è stato un piacere ritrovare quei giorni e il vecchio Preston.
In bocca al lupo, ciao!