Chernobyl, la serie su un disastro che ancora parla al mondo
“Una giovane donna è seduta su una panca davanti casa. Allatta il bambino al seno. Latte e cesio”
Nel 2015, Svjatlana Aleksievič, scrittrice bielorussa, viene insignita del Premio Nobel per la Letteratura. Diciotto anni prima, era uscito il suo libro, Preghiera per Černobyl’. Il 26 aprile del 1986, pochi secondi dopo le ore 1:23, presso la centrale nucleare Vladimir Il’ič Lenin di Černobyl’, a circa tre chilometri dalla città di Pryp”jat’, a nord dell’attuale Ucraina e dell’allora Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, l’esplosione di un reattore dà inizio a una tragedia a cui nessuno saprà far fronte. Ragioni che tutt’oggi non paiono chiare inducono le autorità russe ad assistere inermi al disastro che avrebbe inciso sulla vita di un numero imprecisato di persone per decenni e decenni.
Per tanto tempo Chernobyl ha agito sulla natura e sull’uomo senza che sia stato possibile porre rimedio alle silenziose alterazioni di quella scienza che, sfuggita al controllo dell’uomo, diventa un’arma letale. E la sua mano mortale si poggia invisibile sopra ogni cosa.
Chernobyl è la miniserie televisiva, scritta da Craig Mazin e diretta da Johan Renck, che racconta quegli accadimenti dal momento del disastro al suo postumo oscuro e drammatico. Il prologo, sceneggiato in due anni dopo il disastro, annuncia il dramma col suicidio di un uomo che, dopo aver registrato un lungo messaggio e dopo aver lasciato da mangiare al suo gatto, si dà la morte impiccandosi nel suo appartamento. Da quel momento, nel primo episodio, la narrazione prodotta dalla HBO descrive un’istantanea dall’esplosione alle immediate conseguenze. La notte, l’emergenza, l’impotenza, l’errore, la paura, il panico, l’irrimediabilità, la ragion di Stato, l’ideologia, l’intimità fuoriescono affannate da volto in volto seminando un’inquietudine che, dopo i primi soccorsi e la riunione d’emergenza in cui viene decretata la menzogna, maturano in una quiete scandita da una panoramica che vela di apparente serenità tutto quello che di lì a poco travolgerà la storia dell’uomo e del progresso scientifico. Un disastro ambientale destinato a diventare una lunga e irrisolta agenda internazionale.
La prima puntata della serie dissemina degli inneschi narrativi in un prologo nero in cui il dolore nascosto e l’inavvertito dettano la rivelazione del dramma a bassa voce. Un meccanismo di comodo favorito da letture e analisi postume, in una meditazione favorita dagli anni e dagli approfondimenti disponibili nel corso del tempo. Nei primi cenni del racconto seriale gli autori cedono alle leve della ricostruzione addosso alle disorientate preoccupazioni di chi invece ha dovuto affrontare il disastro colto di sorpresa. Il suicidio iniziale è del pentimento e della punizione di una colpa o è legato a qualcos’altro?
Inoltre, non deve sfuggire un aspetto. Chernobyl non si presenta come una serie documentaristica, ma, a quanto pare, come un impianto fiction. Ecco che ogni ipotetica valutazione di ordine ricostruttivo potrebbe sbattere contro un’intenzione differente. Tuttavia, l’ibrido narrativo si trasformerebbe, così, in un rischio. L’equilibrio sopra l’effetto estetico e il livello di credibilità della produzione targata HBO. Il dramma eletto a musa ispiratrice del racconto, ma col racconto attratto dai fatti del dramma realmente accaduti. Un metodo frequente nelle produzioni seriali di ultima generazione.
Chernobyl non è mai finita
Nonostante il disastro, nonostante il numero mai precisato di vittime, diviso tra i numeri ufficiali diffusi dalle autorità sovietiche e quelli presunti secondo le stime dell’ONU, dell’Organizzazione Mondiale per la Sanità, di istituti russi e ucraini e di alcune organizzazioni internazionali, quello che è accaduto il 26 aprile del 1986 ha soltanto apparentemente chiuso il sipario su una città, su un paesaggio, su un luogo che non ha mai smesso di incidere sull’immaginario collettivo. Anche in considerazione di una lenta, e non immediata, dismissione dell’intero impianto coinvolto, visto che l’ultimo reattore è stato spento nel 2000, successivamente a una fase in cui anche nel 1991 un nuovo allarme, stavolta meno grave, aveva nuovamente allertato le autorità competenti a causa di un incendio. Il lavoro dei “liquidatori”, migliaia di militari e civili a lungo impegnati nello smaltimento di tonnellate di materiali contaminati e nell’opera di seppellimento del reattore numero 4, è andato incontro a un lento e travagliato compimento, raggiunto soltanto nel 2016. Pripyat, il centro abitato allora più prossimo al luogo dell’incidente, è diventata una città fantasma, mentre l’area circostante più vicina alla centrale ha subito le conseguenze su animali e vegetazione. Da alcuni anni, però, la zona più strettamente coinvolta sembra aver dato segnali di reazione, laddove da un po’ di tempo alcuni tour turistici restituiscono a quei luoghi la presenza umana.
Si è a lungo dibattuto sull’opportunità di queste visite, in virtù di valutazioni sull’attuale stato radioattivo di Pripyat e dintorni. La cosiddetta “area di alienazione” chiede ancora prudenza, perché le aree di radioattività non sono misurabili in maniera omogenea. Non è esiste un’uniformità di contaminazione e, per questo, alcune zone possono risultare più contaminate di altre. I principali operatori turistici, però, sostengono che a Chernobyl l’esposizione a radiazioni di poche ore non supera quelle di un viaggio in aereo. Le visite a Pripyat rimangono comunque severamente regolamentate. La natura, pare, che stia pian piano restituendosi vigore, sia pur portandosi addosso quello che è accaduto.
L’abitudine da parte di alcuni visitatori di scattarsi dei selfie durante le visite turistiche ha suscitato non poche polemiche anche tra i produttori della serie televisiva, i quali hanno invitato chiunque capiti da quelle parti di risparmiarsi questo rituale considerato inopportuno e fuori luogo. Intanto, dalla Russia non tutti sembrano aver accolto con consenso la produzione della HBO. Diversi giornali russi hanno aspramente criticato la serie definendola caricaturale e lontana dalla reale ricostruzione dei fatti. La polemica proveniente dagli ambienti moscoviti si innesta nuovamente in un angusto labirinto fatto di ipotesi e di mistificazioni, di omissioni e di informazioni poco chiare. Addirittura, pare che la Ntv, emittente di proprietà della Gazprom, voglia produrre una contro-serie più veritiera e attendibile in risposta a quella della HBO, rievocando una teoria secondo cui a scatenare il disastro sia stato un agente della CIA infiltratosi nello stabilimento con finalità terroristiche. Occidente e “blocco comunista” pare abbiano consegnato le armi militari per impugnare quella mediatiche. Adesso, però, è solo uno show. Allora, invece, si è trattato di ben altro.
Probabilmente, nessuna produzione cinematografica, nessun libro, nessuna relazione postuma potrebbero pareggiare l’unica verità innocente che lo scheletro di quel luogo testimonia ogni giorno in assenza di chi ne è stata la carne.