Venezia 76, giorno 3: “J’accuse” ovvero l’affare Dreyfus. E quello Polanski
Dopo le polemiche dei giorni scorsi, quando la Presidente di Giuria Lucrecia Martel aveva annunciato in conferenza stampa che, nel caso di Roman Polanski (accusato dello stupro ai danni di Samantha Geimer), non sarebbe riuscita a separare l’artista dall’uomo e che non avrebbe applaudito il suo film, qui al Lido è arrivato il momento di J’accuse, a giusta ragione accolto molto positivamente alla proiezione stampa di questa mattina.
Il nuovo film del maestro polacco prende spunto dalla famosa vicenda del capitano francese Alfred Dreyfus (un Louis Garrel sempre più maturo) che, nel 1895, fu accusato di alto tradimento dall’esercito, pubblicamente umiliato e condannato al carcere perpetuo, con pena da scontare sull’Isola del Diavolo. Testimone della vicenda fu Georges Picquart (Jean Dujardin), diretto superiore di Dreyfus, di lì a poco promosso a capo dell’intelligence francese. Il nuovo incarico divenne l’occasione per Picquart di scoprire che i dispacci al nemico continuavano, il che lo spinse a rivalutare la situazione del suo ex-sottoposto e a entrare in un labirinto di menzogne e corruzione che coinvolgeva i gradi più alti dell’esercito, fino a scoprire che Dreyfus fu condannato perché vittima di un pregiudizio negativo dovuto al fatto di essere di religione ebraica.
J’accuse, il cui titolo trae spunto dalla celebre lettera al Presidente della Repubblica scritta da Emile Zola, il padre del naturalismo francese, e pubblicata sul quotidiano L’Aurore, è l’adattamento di un romanzo che Robert Harris, co-sceneggiatore del film insieme al regista, ha scritto sull’affaire Dreyfus dopo aver lungamente e accuratamente studiato il caso, consultando tutta l’ampia documentazione a disposizione. Polanski e Harris, che avevano già collaborato per l’ottimo L’uomo nell’ombra, decidono di impostare la narrazione seguendo il punto di vista di Picquart, considerato più vicino alla verità dei fatti rispetto a quello di Dreyfus, direttamente coinvolto ma fisicamente troppo distante dall’epicentro dei fatti per poter offrire un punto di vista oggettivo.
A metà strada tra il film d’inchiesta e la spy story, J’accuse ha il ritmo di un vero e proprio thriller e si avvale di una sceneggiatura precisa ed equilibrata che coniuga un’attenta e meticolosa ricostruzione dei fatti a una convincente descrizione e caratterizzazione dei personaggi. J’accuse è una vera e propria radiografia sul potere demolitivo della parola (soprattutto quella scritta), capace di rovinare la vita di un innocente (il famoso “bordereau”, il presunto dispaccio inviato al nemico e attribuito alla penna dI Dreyfus) oppure di farsi veicolo di difesa e di sfida verso l’autorità e il Potere, come dimostra la citata lettera di Zola al Presidente, che ebbe un ruolo fondamentale nella riapertura del caso.
Impossibile a questo punto non collegare questa idea della parola come massacro alla vicenda personale di Polanski, al vero e proprio linciaggio cui il regista viene ancora oggi sottoposto per un episodio che, per quanto riprovevole, dovrebbe consentire un’analisi del lavoro dell’autore priva di fanatismi e lontana dalla polvere (e talvolta dal fango) sollevata da ogni caccia alle streghe. Perseguitato per eccellenza nella sanguinosa storia del XX secolo, l’Ebreo incarnato da Dreyfus diventa il simbolo della persecuzione che ha colpito il popolo ebraico, vittima dell’Olocausto. Come ha ricordato Louis Garrel durante la conferenza stampa, il calvario decennale del capitano francese continuò anche dopo la sua prima condanna, e i suoi figli subirono la deportazione durante la seconda guerra mondiale.
Molto accurato nella ricostruzione d’epoca (bellissima la fotografia di Pawel Edelman), che restituisce perfettamente l’aria del tempo, nella sua indagine sulle conseguenze della maldicenza e della diffusione delle false notizie, J’accuse riesce a gettare la sua luce anche sul presente, su un mondo in cui la massiccia presenza dei social network nelle nostre vite finisce per rendere tutti vulnerabili e indifesi quando la cosiddetta macchina del fango comincia a montare. Il caso Dreyfus divise in due la Francia e, al di là della vicenda personale del singolo uomo, rivelò l’antisemitismo di una nazione che, dal collaborazionismo di Vichy ai recenti fatti di terrorismo (il Bataclan), è continuamente costretta a interrogarsi sul suo rapporto con i figli di Abramo. A questo punto, citando Nietzsche, non si può che sperare che, come fu con il quotidiano su cui Zola vergò il suo coraggioso atto di accusa, altre nuove “aurore” possano sorgere.
Oggi è anche la giornata della proiezione ufficiale del primo dei tre film italiani in Concorso, Il Sindaco del Rione Sanità di Mario Martone, presentato ieri sera alla stampa. Tratto dal celebre testo di Eduardo De Filippo, già portato in teatro dal regista napoletano nel 2017, il film ruota intorno alla figura del boss Antonio Barracano e della sua personale concezione della giustizia nella Napoli dei giorni nostri. Per quanto applaudito, l’impressione di chi scrive è che proprio questa attualizzazione del testo di Eduardo, oltre che a una dimensione teatrale troppo invadente, abbia nuociuto al risultato finale. Infatti, la città e la malavita descritta dal grande drammaturgo, con i suoi codici e i suoi “valori”, appartengono a un mondo ormai sparito e decomposto, il che rende tutta la rappresentazione martoniana a dir poco stridente, soprattutto nella parte finale.
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