Un giorno di pioggia a New York, il nuovo Woody Allen ha l’odore di naftalina
Woody Allen torna a Manhattan con Un giorno di pioggia a New York, una commedia romantica che racconta la storia di due fidanzatini del college, Gatsby (Timothée Chalamet) e Ashleigh (Elle Fanning), i cui piani per un weekend romantico da trascorrere insieme a New York vanno in fumo non appena mettono piede in città. I due, fin dal loro arrivo a New York, si ritrovano separati e si imbattono in una serie di incontri casuali e bizzarre avventure, ciascuno per proprio conto [sinossi].
“Adorava New York, la idolatrava smisuratamente. No, è meglio ‘la mitizzava smisuratamente'”. Sono le parole del celebre incipit di Manhattan, una delle opere di Woody Allen entrate ormai di diritto nella storia del cinema. Sono passati esattamente quarant’anni da quel film, al quale sono seguite decine di altri titoli (probabilmente troppi) fino ad arrivare a questo Un giorno di pioggia a New York, quarantottesimo lungometraggio alleniano. Quarant’anni ed ecco di nuovo il regista intonare un inno alla Grande Mela, “la città più bella del mondo” come molti la definiscono. Un giorno di pioggia a New York esce in sala in Italia dopo aver subito parecchie traversie: bloccato dal produttore Amazon, cui Allen ha fatto causa per 68 milioni di dollari, sotto attacco da parte del movimento #MeToo per le accuse di molestie sessuali da parte del regista alle due figlie adottive (nonostante le due assoluzioni), e per questo ancora inedito negli Stati Uniti. Ci si sono poi messi anche i suoi attori a rincarare la dose contro il regista: Timothée Chalamet, Selena Gomez e Rebecca Hall hanno infatti devoluto il loro compenso ad associazioni come #MeToo e “Time’s Up”.
Lasciando da parte queste imbarazzanti polemiche, possiamo dire che Un giorno di pioggia a New York è l’ennesima, e ormai decisamente frusta, variazione sui soliti temi alleniani: la bellezza della propria città natale, qui osservata con immagini da cartolina ed esplorata quasi con gli occhi da turista (benestante), complice la palette di colori disegnata da Vittorio Storaro, vòlta a trasfigurare l’immagine della “città che non dorma mai”, il mondo del cinema presentato attraverso personaggi stereotipati e privi di spessore psicologico (l’artista tormentato e insoddisfatto, l’attore vanesio e il circo mediatico che li circonda hanno scarsissima consistenza, più simili a stereotipi che a persone vere e proprie), la ricerca dell’amore, la mutevolezza dei sentimenti, la pesantezza del mondo familiare dal quale si cerca di evadere, il rapporto tra vita reale (“che è per chi non sa fare di meglio”) e finzione. Con il protagonista maschile, l’inquieto studente dal ridicolo nome di Gatsby Welles, Allen crea un nuovo alter ego, il più giovane della sua carriera, ma l’interpretazione di un Timothée Chalamet decisamente fuori parte non rende un buon servizio alla credibilità della vicenda. Infatti, al di là dell’anagrafe e dell’aspetto fisico, Gatsby Welles ha una biografia da uomo anziano e pronunzia discorsi e sentenze che starebbero meglio in bocca a personaggi più maturi.
Sull’altro versante, Elle Fanning prova a modellare, con qualche forzatura, un personaggio che si presenti come un misto di candore e spregiudicatezza, e si imbatte in tre uomini: il regista Roland Pollard, lo sceneggiatore Ted Davidoff e l’attore Francisco Vega, la cui scrittura appare superficiale, come un po’ tutto il resto. Un po’ ambigua, inoltre, appare la Chan di Selena Gomez, che funzionerebbe benissimo come proiezione fantasmatica e immaginaria delle aspirazioni emotive e intellettuali di Gatsby ma l’idea di dotarla di una propria storia e di una precisa identità (è la sorella minore di una vecchia fiamma di Gatsby) finisce per privare di forza quella che sarebbe stata la migliore invenzione del film.
Come il precedente (e decisamente più riuscito) La ruota delle meraviglie, Allen rimesta nella sua filmografia precedente, lavorando per rime interne, associazioni e contiguità di temi e personaggi, ma in questo caso il risultato appare svogliato, la costruzione delle sequenze piuttosto faticosa con momenti in cui si gira a vuoto (tutto il subplot con il fratello maggiore e la partita a poker appare inessenziale e poco brillante), altri in cui intervengono delle brusche ellissi (dopo l’incontro dei due fidanzati al Cafe Carlyle con Ashleigh fradicia di pioggia ci ritroviamo improvvisamente nella loro suite), altri, infine, in cui situazioni dal potenziale comico esplosivo vengono risolte in maniera troppo sbrigativa (il ritorno improvviso della compagna di Francisco Vega e la conseguente fuga di Ashleigh).
Nonostante qualche arguzia e alcune battute che vanno a segno da parte di un autore che ha scritto alcuni dei dialoghi più brillanti della storia del cinema, Un giorno di pioggia a New York è una ronde senile, greve e un po’ ovvia, in cui Allen descrive il mondo viziato e ovattato dell’alta borghesia newyorchese e di quella ricca di provincia, un universo sociale esclusivo e autoreferenziale con il quale si fa fatica a empatizzare e le cui disavventure umane e sentimentali, tra un bicchiere di champagne e una cena galante, rischiano di risultare davvero poco interessanti. Un Woody Allen con le polveri sempre più bagnate: che in questo caso sia colpa della pioggia?
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