Politica ed editoria contro la libertà della penna
di Marco Antonio D’Aiutolo
Quando si discute sul ruolo e le responsabilità dello scrittore nella società, si deve tener conto di un unico aspetto: la cosiddetta libertà della penna. “La libertà della penna… è l’unico palladio dei diritti del popolo”: così osserva Immanuel Kant nel “Corollario” di un suo scritto del 1793, Sul detto comune: questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la pratica. Mi hanno colpito le sue parole perché il filosofo non usa espressioni come “libertà di pensiero” o “di parola”, né “libertà di stampa”: egli parla bensì di “libertà della penna”. Con questa espressione egli intende che i diritti di un popolo sono salvaguardati dalla libertà di scrittura, nei limiti del rispetto della “costituzione in cui si vive”, ovviamente, e grazie alla possibilità che “le penne” hanno di limitarsi reciprocamente, “così da non perdere la loro libertà”.
Dieci anni prima, in Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo?, il filosofo tedesco aveva proposto un’idea di illuminismo come processo di emancipazione dallo stato di minorità, che si realizza grazie a ciò che Kant chiama “uso pubblico della ragione”, distinto dall’uso privato. Se la minorità significa sottostare al servizio di un’autorità, assoggettarsi al potere, uscire da questo stato significa avere l’audacia di usare il proprio intelletto, passare cioè dall’espressione: “Ubbidite, non ragionate” a quella “Ragionate quanto volete, ma ubbidite”. Ed è qui che si staglia la distinzione tra uso privato e uso pubblico della ragione.
Si esercita un uso privato della ragione quando si hanno funzioni da svolgere nella società, ma come “un pezzo di una macchina”, un segmento particolare: un cittadino che paga le tasse, un ufficiale che obbedisce alle regole dell’esercito, un pastore con la sua chiesa. La ragione, in questo caso, deve adattarsi a determinate circostanze, sottomettendosi a fini particolari: non è quindi libera. L’uso pubblico, invece, è quello di riconoscersi come esseri ragionevoli, membri dell’umanità ragionevole, per cui non si può non essere liberi e privi di censura. Ad esempio, pur dovendo pagare le tasse, i cittadini possono discutere sulla qualità del sistema fiscale, un pastore obbedisce ai dettami della sua chiesa, ma può dibattere sulla validità dei dogmi, ecc. Ragionate quanto volete, ma ubbidite.
Ciò che a noi interessa è che, per Kant, questo uso pubblico della ragione riguarda soprattutto gli scrittori e la responsabilità di chi scrive dinanzi ai lettori. “Intendo per uso pubblico della propria ragione l’uso che uno ne fa, in quanto studioso, davanti all’intero pubblico dei lettori”. Pertanto, quest’uso, che investe lo scrittore, servirà a rendere la sua opera (romanzo, saggio o articolo che sia) una riflessione aperta e critica sul presente, favorendo l’emancipazione dei lettori. Per questo lo studioso “ha piena libertà e anzi il compito di condividere con il pubblico tutti i suoi pensieri… In qualità di studioso che parla attraverso scritti al pubblico… egli gode di una libertà illimitata di valersi della propria ragione e di parlare in prima persona”.
Solo tenendo presente questo si può poi riflettere sul e parlare del rapporto tra scrittori e potere, sia politico, sia con riferimento ai meccanismi del mercato editoriale. Come Kant osserva in un altro scritto, Che cosa significa orientarsi nel pensiero: solo godendo di una certa libertà pubblica si garantisce la correttezza del pensiero. “Quanto correttamente penseremmo, se non pensassimo per così dire in comune con gli altri a cui comunichiamo i nostri pensieri, e che ci comunicano i loro?”. Questo significa che si deve esigere dal potere politico che, nel fare gli interessi dell’umanità, esso garantisca quella libertà senza censurarla. È semmai il reciproco confronto delle “penne” ad auto-apportarsi dei limiti vicendevoli. Nel libero confronto, gli scrittori che comunicano le proprie idee, visioni sul mondo, l’etica ecc. mettono a disposizione queste idee e visioni e le sottopongono al vaglio critico di altri scrittori (e lettori) che dispongono della libertà di fare lo stesso.
È su questo punto che Kant ha insistito in Sul detto comune, dove usa appunto l’espressione libertà di penna. Allargando il discorso al mondo editoriale, detentore anch’esso di un certo potere, faccio mia la riflessione della docente e scrittrice Maria Chiara Pievatolo, secondo la quale la libertà della penna è specifica degli scrittori e va distinta dalla libertà di stampa che riguarda invece il mondo editoriale. Kant “giustifica i diritti degli editori solo se e quando, in luogo di imporre barriere monopolistiche alla circolazione delle idee, aiutano gli autori a raggiungere il pubblico”. Sebbene la libertà dell’editore sia vincolata a leggi di mercato, il compito cui un editore non deve sottrarsi è la salvaguardia della libertà della penna, cioè di un uso pubblico della ragione, senza censure.
Pertanto la questione del rapporto scrittura-potere non deve essere posta nei termini: come deve comportarsi lo scrittore dinanzi al potere? Essa va capovolta: come deve comportarsi il potere dinanzi alla libertà di penna? Non è lo scrittore a doversi piegare alle ristrette regole del mercato editoriale o alle esigenze della politica. Sono bensì quelle regole e queste esigenze che vanno poste al servizio della libertà della penna. Di conseguenza, è il potere editoriale e quello politico a essere al servizio della scrittura. Nella misura in cui, ovviamente, questa viene posta al servizio dei diritti e degli interessi dell’umanità.
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