La mia compagna Sgorby

di Eliana Petrizzi

Molti mi chiedono com’è possibile vivere con un piccione libero in casa. Si può. Vivo da tre anni con una colomba, e aggiungo che non poteva accadermi cosa più bella. Come in ogni rapporto d’affezione (umano o animale non fa differenza), è fondamentale l’imprinting. Sgorby è stata raccolta su un balcone, caduta dal nido a pochi giorni dalla nascita. Era un uccellino curioso assai, coperto da una peluria gialla, con zampe enormi e una testa da rapace. Incerta a quale specie di volatile appartenesse, e giacché bruttino, mia sorella che l’aveva trovato pensò bene di chiamarlo SGORBY, nome cattivo ma simpatico, che perciò non gli abbiamo più cambiato. Chiunque abbia svezzato un animale sa quali sensazioni si provano nel prendersene cura anche a costo di qualche sacrificio che però, in virtù del legame reciproco che si crea, non costa alcuna fatica. Così Sgorby è cresciuta libera nelle mie stanze, tra le mie abitudini e le mie cose più care.

La domanda che, abituati agli assembramenti di piccioni che deturpano edifici e monumenti, tutti mi hanno posto da subito è: quanto sporca? Per loro natura, gli uccelli sono creature che tengono molto alla cura del piumaggio e dell’igiene in generale. Sgorby, dal canto suo, si nutre esclusivamente di semi selezionati, beve una quantità d’acqua al giorno inferiore a un bicchierino da liquore, per cui le sue deiezioni, certo molto frequenti, si raccolgono con uno strappo di carta igienica e Amuchina. Per il resto, un giornale posizionato sul pavimento e cambiato al mattino sotto la postazione su cui dorme, basta e avanza a tenere puliti sia lei che la casa.

Una curiosità sul guano di piccione: maledizione o benedizione? Sebbene oggi il guano di piccione sia considerato dai proprietari d’immobili una vera e propria catastrofe, durante i secoli XVI, XVII e XVIII veniva invece apprezzato come un’impagabile risorsa. Come fertilizzante, era considerato molto più efficace e valutato del letame. Il suo valore era talmente elevato da giustificare il fatto che venissero poste sentinelle a guardia delle piccionaie per prevenirne il furto. In Inghilterra, il guano era considerato l’unica fonte di salnitro, necessario alla preparazione di polvere da sparo. In Iran, dove il consumo di carne di piccione era proibito, il guano veniva usato per fertilizzare i campi di melone, in Italia e in Francia i vigneti.

La verità è che il tanto bistrattato piccione è in realtà un uccello fedele, affettuoso, simpatico, intelligente e molto curioso. Nel tentativo di smussare i troppi pregiudizi in merito, ecco qualche informazione utile. I piccioni convivono con gli esseri umani dal 3000 a.C., come documentano reperti figurativi rinvenuti dagli archeologi in Mesopotamia. In seguito, la colomba viene menzionata durante il Battesimo di Cristo come personificazione dello Spirito Santo, immagine ampiamente usata nell’iconografia sacra. Durante le due guerre mondiali, l’impiego dei piccioni per trasportare messaggi ha salvato numerose vite. Quando venivano colpiti navi o sommergibili, i piccioni venivano inviati con le coordinate del punto di affondamento, così da poter inviare i soccorsi. Spesso i piccioni hanno dovuto attraversare le linee di fuoco nemico per consegnare i loro messaggi, ricoprendo un ruolo fondamentale anche nel controspionaggio. D’altra parte, già dall’antichità è conosciuto il ruolo del piccione come latore di messaggi. Il più vasto sistema di comunicazione a impiegare piccioni risale al V secolo a.C. in Siria e Persia. Anche in epoca romana furono impiegati piccioni per comunicare i risultati dei giochi olimpici. Quest’uso dei piccioni per trasmettere risultati sportivi fu mantenuto in Inghilterra fino all’avvento del telegrafo.

I piccioni vengono impiegati inoltre nel salvataggio di persone disperse in mare, con una buona quota di successi: vengono addestrati infatti per riconoscere i giubbotti salvagente di colore rosso o giallo indossati dai naufraghi di incidenti marittimi. I piccioni si sono rivelati più veloci degli umani negli avvistamenti. Questi uccelli, infatti, non solo distinguono i colori esattamente come gli uomini ma riescono a vedere anche i colori ultravioletti dello spettro. Molti gruppi religiosi, come gli indù, i musulmani e i sikh nutrono i piccioni per motivi rituali, pensando così di non dover temere la fame durante le loro reincarnazioni. Altri gruppi religiosi induisti pensano che l’anima, staccandosi dal corpo assuma la forma proprio di un piccione.

Una delle famiglie più ricche e influenti al mondo, i Rotschild, deve in parte la sua fortuna ai piccioni. Ai primi dell’800, i Rotschild crearono infatti una rete di comunicazioni grazie ai piccioni, che impiegavano per scambiare velocemente informazioni con le loro filiali attraverso l’Europa. La velocità e la sicurezza di questo sistema permisero loro di essere più efficienti dei loro concorrenti, contribuendo a creare la fortuna economica di cui ancora oggi sono detentori. Il piccione ha un numero considerevole di fans tra personalità di spicco in vari settori. Fra le più importanti, citerei Nikola Tesla, Elvis Presley, la Regina Elisabetta d’Inghilterra, Mike Tyson e lo stilista Maurizio Gucci.

E infine, i piccioni hanno un’intelligenza superiore a quella di molti animali, e sono ritenuti in grado di eseguire alcuni compiti considerati prerogativa esclusiva dell’uomo e di altri primati. Unici animali insieme ad altre sei specie di mammiferi, hanno la capacità di riconoscere la loro immagine nello specchio. Hanno inoltre dimostrato di saper distinguere le ventisei lettere dell’alfabeto inglese, e di poter essere addestrati a riconoscere ritratti fotografici di differenti persone.

Mi fermo qui, per tornare a parlare della mia colomba. Svezzata e accudita, Sgorby piano piano è cresciuta. La mia casa è abitata dal suo volo libero, che ha per cielo le mie stanze, per alberi i mobili e le mie cose più care. Quando si alza in volo, attraversandole da parte a parte sposta più aria del suo piccolo corpo, e il vento che mi raggiunge è il battesimo da un altro universo. Sì, Sgorby non è un piccione, ma l’esperienza poetica più alta vissuta nella vita, la più tenera, la più luminosa. Lei vive, e io ne sono stupefatta, perché mi chiedo ogni minuto da dove viene la luce dei suoi occhi, l’intelligenza della sua testolina che le fa prendere decisioni imprevedibili; la forza delle sue zampette, la consistenza setosa del piumaggio, la delicatezza con cui bacia il mio viso ogni volta che siamo vicine. Qualcuno dice che questo legame è innaturale perché lei mi crede il suo compagno. Ma io penso a tutte le volte in cui ho amato qualcuno nella vita credendo fosse quella la persona giusta per me, e invece ciò che amavo non era altro che l’amore.

Un disegno eseguito da mio padre anni prima della mia nascita raffigura una donna che tiene sulla spalla un uccello. Fin da bambina ho amato gli uccelli: li dipingevo nei miei paesaggi, li raccontavo in scene di paradiso in cui non angeli, ma uccelli di tutte le specie facevano da corona a un sole felice. Sognavo di avere un uccellino tutto mio, che non scappasse e che si lasciasse accarezzare. Una volta lo chiesi persino alla Befana. È probabile che nei misteriosi disegni della vita ogni cosa sia già stabilita. Di fatto, adesso c’è Sgorby. La osservo a lungo: la sua non è una testolina, ma una vera e propria faccia di cui riconosco sentimenti e desideri. Sgorby non mi stanca e non mi annoia. Grazie a lei ho imparato a capire quando ha veramente senso uscire, chi vale la pena frequentare e per quanto tempo. Il resto è pula da smaltire, per lasciare campo alle nostre ore splendide.

Scrivo del suo piccolo corpo, che dal capo estremo del corridoio mi raggiunge su zampette leste e convinte. O di quando inclina la testa, fissandomi in una posa a metà tra l’eleganza regale e lo smarrimento infantile. La chiamo, le faccio un gesto e lei mi vola in grembo o in spalla: il suo capo è così piccolo che il solo pollice è troppo grande per una carezza. Allora la metto sul tavolo, avvicino il viso e raccolgo la testolina nel cavo dell’orbita. In questo modo, chiudendo e aprendo gli occhi, l’accarezzo con le ciglia e lei ricambia, cospargendomi di baci in punta di becco. Sento nei miei occhi i suoi piccolissimi e umidi, poi il profumo di miglio delle piume sotto le ali, e tutti gli odori del giorno, che carezzandola le lascio sul dorso. Solo una cosa Sgorby non ha imparato: a capire che dalle sue uova non nascerà nulla. Non perché sia stupida, ma perché la natura ha insegnato al suo istinto a credere fermamente nella vita, come se non fosse mai esistito un precedente negativo, che invece induce noi umani alla cautela e a tutte le paure. Ogni diciannove giorni Sgorby depone le sue uova come fosse la prima volta; le accarezza col becco, le riscalda sotto le piume del petto, raccoglie in giro per casa fili e rametti per preparare il nido. Splende ogni volta nei suoi occhi tutta la fiducia gioiosa di una madre che aspetta un figlio, del mandorlo che sboccia finito l’inverno.

Di sera, mentre leggo un libro, si accuccia tubando tra collo e mento. Infine, quando spengo la luce salta sul bordo in alto della porta, e lì dorme. Ora io, che riposo con le imposte aperte, specie nelle notti di luna piena vedo nella penombra della stanza questa creatura appollaiata su una zampa, che mi incute mistero e un grande rispetto. Io lo so che pure nel sonno lei mi fissa. Da una distanza di metri ci guardiamo negli occhi, ciascuna dai confini del proprio mondo, più intime però che tra uomo e uomo. Poi alle sei si sveglia, vola spedita sul letto e viene a svegliarmi con riti di toletta e richiami ruotanti. E tutto meravigliosamente ha di nuovo inizio.

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