Uragano Topor – parte prima: Dalla campagna al calamaio

“(…) In modo sorprendente/Topor spreca le sue energie/nell’universo della precisione.
La sua opera  contiene la sapienza più sottile/che si possa trovare oggi/
appare pieno di genio/Come fosse pieno di grazia”.

(Fernando Arrabal,  Parigi, novembre 1984)

L’ambigua, sfuggente superficie di uno specchio mette in contatto la concretezza oggettiva del mondo dalla controparte del proprio capriccioso ritratto. Una  linea di demarcazione non diversa da quella che sdoppia la visione di un bambino cresciuto  durante l’occupazione nazista, trasformando le campagne della Savoia francese nel mondo parallelo che s’imprimeva  dietro i suoi occhioni sporgenti, una selvaggia realtà che ne avrebbe tatuato indelebilmente l’immaginazione con le stimmate dell’orrore e del grottesco più assoluto.

Il bambino dallo sguardo profondo è Roland Topor e l’incontenibile attività artistica con la quale esplora i più diversi linguaggi, non è altro che l’eco della sua infantile scoperta del mondo, un’iniziazione traumatica e seducente, segnata da insostenibili crudezze e straordinarie meraviglie. Il tuffo in una dimensione senza censure connotata di odori, fisicità sangue e morte, ossia tutto ciò che la società borghese, di norma, occulta o addomestica dietro le facciate asettiche dei propri riti sociali.
Un palcoscenico perfetto dove dispiegare il paradosso più assurdo, il sarcasmo feroce, l’onirismo senza rete  di sicurezza, tutti ingredienti dell’opera alchemica con cui Topor, mago al contrario, trasforma l’oro in sterco e l’antiestetico in artistico.

In campagna è un’altra cosa (c’è più gusto) recita il titolo di un romanzo del grande Achille Campanile, suonando  come un surreale slogan pubblicitario, ma non c’è nulla di più distante tra l’aerea follia dell’umorista e la mano pesante di Topor, i cui personaggi sono inchiodati alla materia di un teatro della crudeltà  degno di Artaud, arricchendolo però di ironia e violente invenzioni visive.

Figlio di un pittore e scultore, spesso omaggiato graficamente in veste di proprio doppio o prologo vivente, Topor segue una formazione accademica che ben presto butta alle ortiche per trovarsi più a proprio agio con la lente deformante della satira. Già dai tempi della propria collaborazione con la rivista Hara Kiri, il disegnatore affonda la penna nel buio riemergendone spaventato e ilare, ad aggrovigliare plasticamente feticci di china e pastello, sempre memori della propria origine  animale. Questi corpi composti dalla somma di altri corpi, sono intersezioni impossibili di oggetti estranei tra loro, tutte sconfitte delle più elementari norme della fisica e della logica, azzittite a colpi di entropia, sovversione, caos. Uno sguardo ai disegni di Topor, così meticolosi e goffi, con il loro linguaggio primario da scultura romanica, ci restituiscono la misura dell’eccesso come unico metro possibile per inquadrare le ridondanze del mondo. L’aberrante galleria delle paure coltivate negli alambicchi della memoria, sono liberate da se stesse tramite un umorismo guascone e dissacrante, scettico per natura, muto per scelta. E Roland Topor sa usar con sapienza questo silenzio, per rendere ridicolo come un film senza sonoro il penoso, insensato affaccendarsi dell’umanità…

(La seconda parte di questo approfondimento verrà pubblicata la prossima settimana)

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