Filosofie da coronavirus: tra cospirazioni, feticci e responsabilità concrete
di Marco Antonio D’Aiutolo
Molto è stato detto su questa terribile esperienza della pandemia che sta coinvolgendo tutti noi a livello mondiale. Si è cercato di fornire spiegazioni, punti di vista svariati, ricercarne il senso, dare risposte risolutive. Si è suggerito di aprirsi a nuovi orizzonti e a prospettive future, di auspicare e proporre svolte di carattere globale. Tuttavia, insieme a riflessioni più o meno intriganti e originali, non sono mancate anche le ormai famosissime teorie complottiste, vòlte a rivedere o confermare visioni del mondo, della realtà e della politica a dir poco eterodosse, già precedentemente sviluppate per altri temi e rispolverate per l’occasione.
Tra queste teorie, mi viene in mente innanzitutto quella del noto filosofo Giorgio Agamben, che ha sviluppato una serie di riflessioni, anche significative, in articoli ora presenti sul sito della casa editrice Quoblibet. Un primo contributo di Agamben, in data 26 febbraio, parlava di epidemia “inventata”. Il titolo è emblematico (L’invenzione di un’epidemia) e ci autorizza a considerare Agamben non solo un negazionista ma un cospirazionista. Secondo Agamben, il Coronavirus sarebbe opera delle autorità per diffondere, con il sostegno dei media, “un clima di panico, provocando un vero e proprio stato di eccezione, con gravi limitazioni dei movimenti e una sospensione del normale funzionamento delle condizioni di vita e di lavoro in intere regioni”.
Per contro, il 10 aprile scorso un altro filosofo, Francescomaria Tedesco su MicroMega, ha sostenuto che “si tratta di un dibattito entro una ristretta cerchia di appartenenti a una corporazione litigiosa, i filosofi” e che è improbabile che la gente comune, poco avvezza ad ascoltare le loro posizioni, si lasci influenzare trasgredendo così le restrizioni. C’è da dire che, con buona pace di Agamben, altre teorie complottiste che circolano allegramente e pericolosamente sui social non liquidano l’epidemia come un’invenzione, definendola però pur sempre un prodotto di forze politiche sovrane che, grazie all’ausilio dei servizi segreti, pare abbiano congiurato per la diffusione del virus. Secondo costoro i motivi possono essere svariati: neutralizzare altre potenze economiche rivali (tipo la Cina); o eliminare il potere d’acquisto di una larga fetta della popolazione mondiale (in particolare il ceto medio); o diffondere il panico sì da imporre uno stato di emergenza allo scopo di limitare le libertà e tenerci tutti sotto controllo. Secondo le varianti di queste teorie se la causa non è riconducibile alle istituzioni politiche, i responsabili potrebbero essere i sistemi bancari e finanziari, quelli sanitari o farmaceutici o addirittura la scienza che vuole sostituirsi al potere religioso (è ancora Agamben a sostenerlo in un altro articolo del 27 marzo, Riflessioni sulla peste in cui la scienza viene considerata alla stregua della superstizione.
Queste teorie sono state demolite in termini molto duri da altri filosofi e/o intellettuali. Ad esempio, Angelo Cannatà, docente di Storia e Filosofia, in un contributo su Il Fatto quotidiano, cita il Kant di Sogni di un visionario chiariti coi sogni della metafisica. In quest’opera, il grande pensatore tedesco, in risposta alla teoria di Swedenborg, convinto di poter comunicare con le anime dei defunti, osservava che “certe farneticazioni ‘si combattono coi purganti”. Ancora più esplicito è stato Paolo Flores d’Arcais che, su MicroMega, riferendosi ad Agamben, scrive elegantemente: “è una filosofia del cazzo”. Forse non è il caso di usare termini così aspri. Riflettendoci bene è possibile anche ricavare aspetti positivi da queste teorie, in termini di riflessioni politiche o sulla nostra passività nel modo in cui scegliamo di rinunciare alla nostra vita.
Proviamo a prendere in considerazione due teorie non dissimili da quelle cospirazioniste. La prima sostiene che le cause della pandemia vadano ricondotte a una rivalsa della natura che si vendica dei cattivissimi umani per averla ferita. L’altra che sia addirittura Dio che, con mano potente, da padre buono ma severo, di tanto in tanto, punisce gli uomini per i loro peccati con tragedie di proporzioni biblico-apocalittiche, come ha osservato l’arcivescovo Carlo Maria Viganò, in barba agli sforzi di papa Francesco, che è solito usare i termini più consolatori per tranquillizzare il gregge che è stato chiamato a guidare. In un’intervista rilasciata a Michael Matt, e pubblicata su The Remnant il 30 marzo scorso, alla domanda se “vi siano dei peccati che hanno suscitato lo sdegno di Dio in modo particolare”, il porporato risponde affermativamente inserendo nell’elenco “l’aborto, che anche durante la pandemia continua a uccidere bambini innocenti; il divorzio, l’eutanasia, l’orrore del cosiddetto matrimonio omosessuale, la celebrazione della sodomia e delle peggiori perversioni, la pornografia, la corruzione dei piccoli, la speculazione delle élite finanziare, la profanazione della domenica…”. Tale pensiero, che non circola sulle reti televisive probabilmente perché fa poco share, è rappresentativo di una certa tradizione cattolica dura a morire.
Al di là di quale si scelga di analizzare, l’elemento comune di queste teorie è costituito dalla mancanza di effettive prove empiriche capaci di dimostrare che dietro questa pandemia vi siano l’opera di presunte cospirazioni, la vendetta della natura o la mano potente e punitiva di Dio. In tal modo, diviene impossibile sia la loro verificabilità che, per dirla alla Popper, la loro falsificazione. La realtà, in questo caso, quando non è negata esplicitamente, viene piegata alla fantasiosità di una specifica visione. Come è noto, ogni teoria dovrebbe sottostare e ubbidire al cosiddetto principio di Realtà. Qualcuno, a cui avevo chiesto documenti, informazioni e prove a conferma della propria teoria complottista o “agambenggiante”, mi ha risposto: prove non ve ne sono, basta unire i punti. Unire i punti? A questo proposito, andrebbe ricordato che i “punti” possono essere “uniti” nei modi più svariati, arrivando a far dire loro ciò che si vuole e non ciò che essi veramente dicono.
Tutto questo può essere riassunto in quello che possiamo indicare, lacanianamente, come il ricorso al Grande Altro: esistono, cioè, presunte potenze che complottano, c’è una natura che si vendica, un Dio che punisce. Questi veri e propri feticci fanno leva su un’antropologia negativa, fatta di paure, mostri interiori, paranoie persecutorie e atavici sensi di colpa. Tra l’altro viene da chiedersi se, almeno dietro i cospirazionisti, non si celi una sopravvalutazione esagerata dell’uomo e della sua capacità di ordire trame così complesse, così come sembra strano che, ai giorni nostri, con una medicina e una tecnologia così sviluppata e un progresso avanzato, l’uomo possa soccombere a eventi naturali su cui non ha potere. A ogni modo, la pericolosità di queste teorie consiste nel creare di fatto quel “clima di panico” che paradossalmente molte di esse vorrebbero evitare, o capri espiatori contro cui accanirsi violentemente (abortisti, omosessuali ecc.), oltre ad accrescere la già diffusa sfiducia verso istituzioni, autorità, comunità scientifica e mezzi di informazione. Non mi riferisco solo all’atteggiamento di quei cittadini riottosi, privi di senso civico e morale. Ma anche a chi, all’interno delle rappresentanze istituzionali, si accanisce contro il Governo, accusato di aver attivato misure di sicurezza troppo poco severe o di disattenderle. Penso al caso esploso tra il sindaco di Messina, Cateno De Luca, che ha accusato il governo di “malaburocrazia”, e la ministra degli Interni, Luciana Lamorgese, che lo ha denunciato per vilipendio.
Un altro danno arrecato da tali teorie consiste nello sviare l’attenzione dai problemi reali, dalle responsabilità sostanziali e dalle risposte concretamente risolutive. Inoltre, l’impressione è che una scienza nobile come la filosofia dovrebbe stimolare in ciascuno un senso critico basato su evidenze empiriche, evitando di accarezzare teorie vaghe e non dimostrate da alcun ragionamento basato su fatti concreti.