Basta con quell’insopportabile “mai più”

L’etica e l’estetica di una pandemia

Oltre il lutto, i drammi e le sofferenze, di quello che stiamo vivendo mi piacerebbe rimuovere avverbi e avverbiali. Soprattutto, quelli per bocca dei media. Tutta l’incidenza linguistica d’occasione sta scavando un solco assurdo e pericoloso sopra la percezione collettiva. Difficile trovare un ordine nel caos ma, provandoci, si potrebbe iniziare dal timore che tutto questo possa intervenire in maniera altrettanto incisiva sull’estetica e sui suoi molteplici intendimenti. A partire da un’abitudine a una realtà popolata da persone col volto mezzo coperto e il condizionamento di prescrizioni che passano sotto parole come distanziamento, portata, distacco.

Ancora una volta, una forma ambigua di prudenza passerà indisturbata per comportamenti indotti secondo cautele imposte da nuove forme di diffidenza. Un’interiorizzazione dell’altro con l’ossessione dell’immunità e della protezione ci avrà trasfigurati prima ancora che la scienza avrà provveduto a chiarire le insidie di questi e altri virus. Per un nuovo apogeo saremo catapultati dentro una dimensione nuova del vicino e lontano. Ora, per quanto tempo dovrà durare?

Secondo il linguaggio dei media, in questo momento il “mai più” sembra farla da padrone. “La vita non sarà più la stessa”, “Dovremo abituarci a un nuovo quotidiano”, “Non sarà più possibile come prima”. Con una densa foschia ancora sopra ogni cosa, la voce del potere è convinta, o meglio, pretende di convincere tutti che questo avvenimento, oltre ogni ipotesi di evoluzione, sarà in grado di manomettere l’estetica e la concretezza delle cose in maniera permanente e definitiva, costringendo l’umanità a escogitarsi diversa, come mai vista prima, per un futuro che sarà segnato dall’irrecuperabilità di modalità che saremo destinati a lasciarci alle spalle.

Dire “mai più” significa dire questo. Significa sentenziare su quello che verrà e significa farlo in perpetuo. I media questo lo sanno? Sanno cosa significa pronunciare l’espressione “mai più”? Sanno quale potenza queste due parole sono in grado di sprigionare? Sanno bene, soprattutto, cosa significa sentirselo dire? Eppure, nella confusione di chi non sa come provvedere fino in fondo, di chi non conosce il fondo, c’è chi sa che qualcosa di nuovo sostituirà per sempre qualcosa che sarà dichiarato irrecuperabile.

Il categorico ha l’obiettivo della rassegnazione, come una finalità di questa gamma di imperativi nati sotto il segno della pandemia, in costante diffusione del manifesto di una nuova squadratura sociale. La codificazione della provvisorietà rassomiglia più al latente desiderio di un sabotaggio che alla serietà di una previsione. Benché ancora non quantificabile, essa è già una condanna. E s’avverte come una deprimente e arrendevole avvisaglia instillata nella percezione collettiva.

Puzza di visionari

Non è nemmeno finita e già qualcuno inizia a fiondarsi sull’ipotetica trasfigurazione delle cose. Teorizzatori del profitto con l’anima dei capitani di ventura, travestiti da sorridenti e teneri visionari, se ne stanno in agguato pronti ad aspettare che tutto questo getti le basi per far fruttare l’occasione. Potranno, loro sì, togliere la maschera grazie all’ennesimo benestare di un sistema che si predica innovativo, ma che cova soltanto l’arte dello sfruttamento. Il liberismo sarà sanificato. Il post pandemia aprirà le porte a nuove forme di consumo, con i relativi favori e privilegi. Tutto sarà elaborato e allevato nelle zona franca dell’innovazione, dello sviluppo e, ovviamente, di nuove estetiche. La parte scoperta del volto assisterà impotente alla colonizzazione della realtà attraverso imposizioni presentate come possibilità. Si sta correndo il rischio di avviarsi a una rivoluzione conservatrice, invece che verso un’occasione per nuove conquiste. Una nuova restaurazione parlerà un nuovo linguaggio per il più subdolo degli ancien régime.

La politica fa la guardia

Intanto, la politica se ne sta lì, paralizzata in un incanto che non si sa bene se autoindotto, a biascicarsi tremante e miserabile con quella sua retorica ruvida e lentissima. Una sfinge truccata come una vecchia prostituta inizia a diffondere proclami con parole di enigma e di ‘non si sa come andrà a finire’. Invece, lo sappiamo come andrà a finire. Come ogni volta, come prima di cominciare e peggio del durante. E il bello è che in certi frangenti non c’è nemmeno un briciolo di opposizione (nemmeno quella finta in tempi più favorevoli), se non quella di chi strepita l’irreale e l’inverosimile, continuando a fare politica demagogica come se niente fosse.

Allora, tutto può essere concepito ed eseguito con il luogo a procedere del “è necessario farlo”, laddove, però, la parola necessario non è detto che sia quella giusta, poiché troppo spesso abbiamo assistito a fenomeni in cui la parola necessità è servita a dissimulare ben altre ragioni. Del resto, sarebbe scontato ricordare quali esperienze hanno visto l’uomo utilizzare la necessità come pretesto. Adesso che molte nazioni potenti hanno a capo uomini di dubbia sensibilità, questo monito diventa più inquietante.

“State buoni se potete”

La confusione tra la protezione, la tutela e l’addomesticamento è servita a far prendere tempo a chi avrebbe dovuto leggere il tempo diversamente e in anticipo. Lo state buoni se potete ha iniziato ad assumere i tratti dell’incapacità. Ci si sono rifugiati in molti, spesso con la bacchetta del maestro in pugno. Finirà tutto senza un volto, come un grande romanzo del tempo. Si cadrà nella tentazione di comodo di affidarsi al futuro. I passivanti dialettici che vanno sotto il nome di speranza, attesa e fiducia sono le uniche parole che riusciamo a pronunciare con disinvoltura perché sono le sole alle quali sappiamo dare seguito senza costrutto. Troppe cose si reggono sopra quest’arte del niente. E non si può sempre giustificarle con la norma fatalista della morte. Tra la nascita delle cose e la loro fine c’è qualcosa che non può finire sotto l’egida della mortalità. Ogni volta, sotto il patrocinio della vita appaltata, in costante affidamento e amministrazione. Questo sì che è fuori natura. Lo scrive Leopardi nel suo Zibaldone, a proposito di quella natura “che ha perduto il regno su di noi”:

“S’ella non è più l’arbitro né la regola della nostra vita, perché dev’esserlo della nostra morte?”

Che un virus, una nuova malattia e ogni altro imprevisto che la natura può presentarci possano condurre alla morte, sì, questo è fuori dubbio. Tuttavia, il dubbio resta laddove si rifletta sul fatto che un’epidemia porti la morte in anticipo sui nostri giorni in luogo di un’impreparazione che delude i proclami e le rassicurazioni di quello stesso sistema che prestissimo, invece, si è dovuto arrendere. È qui che giace la linea sottile di un’enorme sconfitta. La natura ha causato il virus e l’uomo il contagio?

E non sappiamo come proseguirà, perché i disagi di un tempo non potranno essere di certo cancellati da quello che verrà. Aver ordinato di sospendere la vita in una sorta di coma economico collettivo renderà le preoccupazioni più forti di prima. Il disagio che oggi è giovane domani sarà la vita degli anziani. Quello che adesso viene considerato precario domani sarà consolidato. Inutile sfuggire al dovere più difficile da mettere in pratica. Solo l’uomo può essere di aiuto all’uomo. La natura, a proposito dello Zibaldone di Leopardi, assiste silenziosa. Suoi possono essere i moniti bisbiglianti sopra le leggi e le economie, ma il resto non le riguarda. Anche alla devastazione essa sa come rimediare e sopravvivervi. La natura sa come ripetere il filo d’erba. Noi non possiamo ripetere né tutta una vita né un suo frammento. Come per Brecht, “l’uomo che attraversa sereno la via, mai più potranno raggiungerlo gli amici che sono nell’affanno?”. Che bel tempo sarebbe se l’uomo, ancor prima di combattere un virus, smettesse di somigliargli.

In copertina, René Magritte, La riproduzione vietata 

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