Intervista a Giacomo Rizzo. “Amo il teatro e lo farò finché respiro”
di Davide Speranza
Era stato riscoperto da Paolo Sorrentino nel film L’amico di famiglia, dove il filmmaker napoletano gli aveva affidato il ruolo di assoluto protagonista. Ma la carriera di Giacomo Rizzo ha avuto un incipit folgorante, con la partecipazione al Decameron di Pier Paolo Pasolini nel 1971, anche se già in precedenza aveva lavorato nel mondo della sceneggiata portato in auge da Mario Merola. Tanto teatro – si ricordano collaborazioni con i fratelli Giuffré, la compagnia di Luisa Conte e Carlo Taranto al Sannazaro – ma anche ottimo cinema al quale tornerà, dopo l’esperienza pasoliniana, con il capolavoro di Bernardo Bertolucci Novecento o Nanni Loy in Pacco, doppio pacco e contropaccotto, fino all’Aitanic di Nino D’Angelo.
Un attore che ha attraversato la tradizione scarpettiana, consacrandosi con il premio Alberto Sordi, proprio grazie alla figura di Geremia de’ Geremei, il personaggio che ha interpretato nel film di Sorrentino. Venerdì 30 ottobre, in Piazza del Gesù Nuovo c’era anche lui a protestare contro le dichiarazioni del ministro Dario Franceschini e contro il Dpcm che ha chiuso cinema e teatri. Mascherina rossa, sguardo deciso, scattante nonostante i suoi 81 anni. Sempre ironico, pungente e surreale, non ha risparmiato staffilate velenose a Franceschini, ricordando come una società senza teatro non esiste.
Lei protesta insieme a tanti giovani. Perché è sceso in piazza?
Faccio l’attore, sono ancora in teatro e lavoro, non ho mai pensato di ritirarmi. Mi ritiro la sera, qualche volta, ma tardi. Amo il teatro e lo farò finché respiro. Scrivo, faccio regia, adoro questo mestiere più della mia vita, ho iniziato a farlo a 7 anni. Non l’ho scelto perché c’era la televisione a comunicarmi il piacere di farlo, l’ho scelto io. Non si sa come, se mi dovessi chiedere come mai ho pensato di fare l’attore non saprei rispondere.
Cosa sta sbagliando il Governo sulla gestione del sistema culturale?
Chiudono due cose che non si dovevano mai chiudere. Sono i luoghi più sicuri. A cinema vado per guardare e ascoltare, non per parlare. A teatro ancora meglio. Mi seggo, voglio sentire, ascoltare, voglio vedere. Non abbiamo comunicazione durante lo spettacolo e, se ci dicono che è pericoloso, stiamo zitti anche durante l’intervallo, non usiamo il bar. In teatro non c’è alcun pericolo di contagiare e di essere contagiati.
Qual è la prospettiva se dovesse continuare così?
Io non credo che continuerà così. Mi dispiace che abbiamo trovato il ministro sbagliato, è uno che non si è documentato sul teatro e sul cinema, non sa cosa ha creato chiudendo questi templi della cultura. Qui non siamo solo attori. Ma ci sono macchinisti, tecnici, sarti, costumisti, truccatori, parrucchieri, mascherine, cassiere, tutti quelli che lavorano intorno al teatro, siamo in migliaia.
La sua idea di risoluzione.
Intanto apriamo il teatro, ripeto nel teatro non si contagia nessuno. Non facciamo questo mestiere per hobby ma lo facciamo per lavoro, seriamente, sperando di portare soldi a casa per far vivere le nostre famiglie come sempre.
Secondo lei, che peso ha il teatro in Italia?
Il teatro è cultura. Quando conosco una persona, mi accorgo se va a teatro o non ci va. A teatro si socializza. Si sta anche insieme, non per mostrare l’abito. Tanto, oggi non si veste più nessuno, è una società di straccioni. Io son tra i pochi che ancora si veste. La gente va a teatro perché lo ama. Ama sapere. Poi il divertimento non è solo quando ridiamo, ma anche quando abbiamo il piacere di pensare. Attraverso lo spettacolo ci si comunica qualcosa che non conosciamo, apprezziamo quello che è stato fatto dagli attori, dal regista, dall’autore. Non è possibile chiudere questo mondo.