C’era una volta un arabo pazzo – Il Necronomicon spiegato ai ragazzi
L’inaspettato, il colpo d’ala che svolta una storia, l’idea illuminante sono peculiarità di casa nella narrativa di Fabio Larcher, impegnato da anni nella costruzione di un fantastico poliforme, imprevisto quanto una battuta caustica, sempre inedito e colto nell’ispirazione.
Dal folklore reinventato all’ucronia allo steam-punk, questo irrequieto giocare coi generi ampliandone i confini e sperimentando insoliti innesti, ancora una volta coglie nel segno, gettando un ponte tra la platea young-adult e il cupo universo di H.P. Lovecraft. Con Il Necronomicon spiegato ai ragazzi, già dal titolo si resta sedotti dalla novità dell’operazione di Fabio Larcher che riunisce in antitesi due aree estranee tra loro e (apparentemente) inconciliabili. In seconda battuta, sorge però la domanda se ci sia effettivamente materia per elaborare un discorso compiuto. Infanzia e adolescenza non hanno mai avuto un ruolo rilevante nell’opera del solitario di Providence. Inoltre, per poter andare incontro a questa fascia di lettori è necessario ricostruire una cosmogonia complessa e frazionata in una galassia di racconti, riplasmandola poi in una forma narrativa lineare, avvincente, nonché fedele alla fonte d’origine e al suo mix di orrido e meraviglioso. Una bella gatta da pelare, insomma.
La mole di studi coagulatisi intorno a Lovecraft fino a divenire un piedistallo dottrinario, rende i propri estensori sacerdoti di un culto da trattare con estrema cautela, se si vogliono evitare polemiche e faide interpretative. Nonostante il rischio fallimento possa essere in agguato dietro l’angolo, Larcher invece si muove con disinvoltura negli scenari di HPL, riportandole con accuratezza in tutta la loro carica repulsiva, costruendo il suo contributo intorno al caposaldo più sovraesposto, sfruttato e sovrascritto di tutto il ciclo Cthulhiano: Il Necronomicon.
L’esecrato grimorio che porta alla follia l’incauto lettore, vive in una strana dimensione trasversale perché, pur essendo un opera fittizia, col tempo si è strettamente legato alla vita reale attraverso fake, ricostruzioni, leggende metropolitane, competendo per analisi e seguito con la Divina Commedia.
Con la mossa del cavallo di un consumato scacchista, lo scrittore ed editore bresciano scavalca il focus del dibattito che circonda lo pseudobiblia, concentrando la narrazione sul suo misterioso autore, una figura di cui molto è stato scritto sulla morte spettacolare e pubblica, mentre della vita privata si conosce poco o nulla.
Il poeta di origine yemenita Abdul Alhazred, noto al mondo come “l’arabo pazzo”, nasce durante il califfato Omayyadi del VIII secolo nella città di Sanaa, per morire nel 738 in una via di Damasco, fatto a pezzi da un essere invisibile. Tra nascita e dipartita del personaggio, tutto sommato gregario al suo stesso testo, i racconti di Lovecraft restano parchi di notizie, distribuendo informazioni vaghe e sommarie L’immaginazione perciò ha carta bianca per colmare come meglio crede questi vuoti. Già August Derleth, amico ed epigono del Maestro, aveva aggiornato la biografia del demonologo, attribuendogli una fine meno sovrannaturale, ma ugualmente atroce, rendendolo vittima degli abitanti della Città senza Nome dai quali viene rapito, torturato e ucciso.
La linea scelta da Larcher, invece, puntando su una direzione diametralmente opposta, risulta essere più rivoluzionaria “normalizzando” l’arabo pazzo, cioè sottraendogli proprio gli attributi sinistri da eresiarca che lo hanno sempre connotato, immischiandolo in commerci innominabili con oscure entità extraterrestri..
L’inedito Alhazred “in pantofole” ci viene così presentato come un buon padre di famiglia, pio e osservante, con l’unica colpa di aver ceduto alla propria fame di conoscenza, prestandosi a uno sconsiderato viaggio dal quale si salva a stento. Per questa debolezza, dunque, racconta Abdul al figlio Ismail in una magica notte senza fine, lo studioso ha rischiato di perdere il senno e molto di più che la propria vita, facendosi portare lontano oltre ogni fantasia, in freddi abissi siderali mai toccati dalla presenza dell’uomo.
Inutile soffermarsi in questa sede a elencare tutte le apparizioni e le loro corrispondenze bibliografiche che Alhazred, o meglio la sua coscienza, incontra downloadata nell’equivalente arcaico di un costrutto ROM a sola lettura. Con maggiore grazia letteraria di un crudo romanzo cyberpunk, Larcher inanella, strato dopo strato, un’esauriente carrellata delle razze e degli Dèi che presiedono il cosmo a completa insaputa dell’umanità. Corredato da note puntuali che rendono accessibili le citazioni più sofisticate, il diario di bordo del disincarnato Alhazred scorre carico di fascino e tensione, movimentato da interludi poetici in versi e croccanti illustrazioni dallo stile pulito e dettagliato di un codice miniato (opera dello stesso autore).
Partendo dai colori e i profumi esotici delle Mille e una notte, si verrà trasportati dalle creature incontrate da Alhazred nelle rovine della Città senza nome, per conoscere il famigerato grande Chtulhu dal volto tentacolato, Azatoth, il dio immondo e ingordo come un ripugnante buco nero di materia viva; l’inguardabile, multidimensionale Yog-Sototh e altre aberrazioni di questo pantheon più antico della nostra più antica civiltà.
Il dialogo notturno tra padre e figlio è un passaggio di consegne di proporzioni cosmiche, in cui vengono affidati al ragazzo segreti insostenibili, verità da cui siamo da sempre all’oscuro, insieme al compito di farsene custode e divulgatore. Nell’angosciosa visione lovecraftiana, piena di fascino ma schiacciante nei suoi assolutismi, non c’è molto spazio per i sentimenti. Fabio Larcher porta una fiaccola a stemperare quel nero in cui certi nichilismi filosofici trovano dimora, e lo fa divertendo, e trasmettendoci con semplicità un messaggio positivo. Dopo tanti orrori e infinite solitudini della coscienza, una famiglia può non essere vista come il peggiore degli approdi possibili. Anzi. Gli antinatalisti, per una volta, se ne faranno una ragione.