“Mank” di David Fincher, la versione di Herman
Scritto nel 1990 da Jack Fincher, padre del regista, Mank narra la storia, raccontata esclusivamente dal punto di vista dello sceneggiatore Herman J. Mankiewicz (uno straordinario Gary Oldman), della genesi di Quarto potere di Orson Welles, da decenni in testa alle classifiche relative ai migliori film mai realizzati. La paternità dello script di quell’opera immortale, che nei titoli di testa appare co-firmato da Welles e Mankiewicz, e che nel 1942 ottenne anche un Oscar (l’unico vinto da entrambi: il film ebbe in tutto nove candidature), ha dato vita a una lunga e irrisolta controversia senza che si sia mai riusciti ad arrivare a una verità unica e indefettibile o, perlomeno, a una sintesi condivisa.
Mank, prodotto e distribuito da Netflix, con cui il regista ha firmato anche le due stagioni della serie televisiva Mindhunter, arriva sulla nota piattaforma digitale nei giorni in cui i cinema e i teatri in Italia sono ancora chiusi, e tali resteranno ancora a lungo. Opera densa, complessa e stratificata, il film segna, sei anni dopo l’eccellente Gone girl – l’amore bugiardo, il ritorno in grande stile di Fincher al cinema, ed è senza dubbio uno degli esiti più belli e importanti di un’annata cinematografica da dimenticare per ragioni che è superfluo precisare. Girata in uno splendido bianconero, la nuova fatica artistica dell’autore di opere capitali, tra cui Zodiac e The Social Network, non si limita a essere la cronistoria della gestazione di una delle pellicole fondamentali della settima arte né deve essere intesa come una fedele ricostruzione degli eventi, la quale potrebbe far storcere il naso ai wellesiani di stretta osservanza.
Infatti, come anticipato nel titolo di questo contributo, Fincher sceglie di far sua la versione dello sceneggiatore, che ha sempre affermato di essere l’unico vero autore del testo oscarizzato. Quest’ipotesi trovò una delle più famose sostenitrici nella celebre critica newyorchese Pauline Kael, che nel suo pamphlet anti-Welles dal titolo Raising Kane, ormai ampiamente confutato e screditato, tendeva a sminuire il peso e l’importanza del contributo dell’ex enfant prodige, a quei tempi reso celebre dalla trasmissione radiofonica su La guerra dei mondi. Come già detto più sopra, non esiste una versione condivisa dei fatti ma appare certo che Welles mise in atto un cospicuo lavoro di sfrondamento del materiale consegnatogli da “Mank”, operando tagli e modifiche sostanziali che lo rendono co-autore a tutti gli effetti del risultato finale.
In ogni caso, la parzialità della ricostruzione viene esplicitata nella scelta, da parte di Fincher, di scandire il racconto attraverso una serie di flashback, richiamati attraverso didascalie che rimandano alle convenzioni in uso per la stesura di una sceneggiatura, quasi a indicare che quel che stiamo vedendo, per quanto non privo di eventi e personaggi reali, è il frutto della creazione soggettiva di un individuo piuttosto che una ricostruzione documentata dei fatti. In questo senso, lasciare ancora di più nell’ombra la figura di Welles, anziché farla entrare in scena, a un certo punto, in maniera così prepotente sarebbe stata una scelta forse più fruttuosa, liberando il film da ogni ambiguità. Tuttavia, è necessario sottolineare che, lungi dall’essere semplicemente un’opera sulla costruzione di uno script, Mank è molte altre cose: un’arringa sulla/contro la Mecca del cinema, la storia della contrapposizione tra un uomo e un “sistema”, una satira attualissima sulla società statunitense, un’opera che, caso sempre raro nel Paese del codice Hays e della “caccia alle streghe”, dà voce ai tanto vituperati ideali socialisti.
In particolare Mank si presenta come la parabola di un uomo che, nonostante il vizio del gioco e la dipendenza dall’alcool, è moralmente e intellettualmente superiore al mondo che lo circonda, vittima di un ambiente che gli dà da lavorare e da vivere ma che non valorizza il suo talento, anzi spesso togliendo, per le ragioni più disparate, il suo nome dai credits (come nel caso de Il mago di Oz di Victor Fleming). Herman J., giornalista di lungo corso, viene descritto come un outsider, trattato talvolta come un fool, il cui anticonformismo si oppone al potere finanziario e al conservatorismo dei suoi antagonisti, rappresentati dalla Hollywood degli studios e del divismo che si appresta a diventare la “dream factory”, la fabbrica dei sogni del pubblico mondiale. Detentore di una cultura solida e allargata, unita a una visione politica progressista e eterodossa, “Mank” è un acuto e pungente affabulatore, che non nasconde le sue simpatie socialiste (tra le altre cose, finanziò e favorì l’ingresso negli USA di molti rifugiati tedeschi antinazisti), è esperto di politica, cita Pascal e Cervantes, finendo per immedesimarsi proprio nel più celebre personaggio nato dalla penna dell’autore spagnolo, il cavaliere impavido che lotta invano contro i mulini a vento.
La Hollywood dell’epoca, quella dei Louis B. Mayer, degli Irving Thalberg, dei David O. Selznick, demiurghi di un impero in costruzione, in via di riassetto dopo l’irrompere del sonoro, quella Hollywood delle major, legata a filo doppio al magnate della stampa William Randolph Hearst, cui “Mank” e Welles si ispirarono per il loro Charles Foster Kane, sostenitrice nonché finanziatrice del Partito Repubblicano, viene passata al setaccio e denunciata in tutta la sua ipocrisia e infingardaggine. Da un lato vera e propria fucina di sceneggiatori di talento come Ben Hecht (Scarface di Howard Hawks), Charles MacArthur (Gli angeli con la faccia sporca di Michael Curtiz), S.J. Perelman (Horse Feathers con i fratelli Marx), oltre che, naturalmente di registi eccellenti e divi immortali, dall’altro regno dello “Studio system”, politicamente schierato in difesa dello status quo. Ne è la riprova l’appoggio al candidato repubblicano Frank Merriam, preferito allo scrittore radicale e socialista Upton Sinclair durante la campagna elettorale per le elezioni californiane del 1934, lo stesso Sinclair che era stato autore pochi anni prima del romanzo Oil!, dal quale Paul Thomas Anderson avrebbe poi tratto Il petroliere.
Ed è forse proprio quest’ultimo aspetto che consente a Mank di fuoruscire prepotentemente dai recinti del biopic e di sollevare il suo sguardo fino agli Stati Uniti odierni, sorpresi in tutta la loro stringente attualità. Impossibile, infatti, non vedere adombrato nella contrapposizione Merriam-Sinclair il conflitto tra Trump e Biden, ma ancor più quello con il radicale Bernie Sanders, tagliato fuori dalla corsa dal suo stesso Partito proprio a causa della sua dichiarata adesione ai valori del socialismo. D’altronde, ora come allora, non è estraneo a questa battaglia l’utilizzo delle fake news il cui veicolo, nell’èra pre-digitale, furono proprio i cinegiornali sfornati dalle case di produzione, sorta di sinistra imitazione dei regimi allora imperanti in Europa.
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