Alfonsino
di Eliana Petrizzi
A cinque anni, un pomeriggio ho trovato mio padre che si muoveva sopra mia madre. Mia madre faceva dei versi delicati, ma a me parevano così pieni di dolore. Non mi hanno visto, così sono uscito e mi sono messo dietro la porta ad ascoltare. Mia madre continuava a lamentarsi, mio padre a un certo punto ha dato un urlo rauco, e allora ho pensato che forse era lui a provare dolore. Poi solo silenzio. Dall’uscio socchiuso li ho visti dormire spalla a spalla, e ho capito che forse non si erano fatti poi così male.
Sono nato a fatica, e dopo di me non è venuto più nessuno. Della morte di mio padre, mia madre ha detto che è stata colpa mia, perché se la notte non me ne fossi andato a dormire sulle panchine e lui non fosse venuto a cercarmi, quella macchina non l’avrebbe preso in pieno al buio. Di mestiere faccio lo schizofrenico. Quando vado a visita per la conferma della pensione, mi devo sempre sforzare per dimostrare che non sono guarito. Il dottore mi chiede che mi è successo da piccolo, e io rispondo sempre la stessa cosa, e cioè che un giorno sono entrato in camera di mia madre e ho visto che mio padre le faceva tanto male.
Cammino a testa bassa, trascinato dalla posizione eretta e da un senso naturale di ciò che è opportuno. Le cose brutte sono girandole che vorticano anche senza vento. Quelle belle invece te le devi andare a cercare come le viole nel bosco, ma questo succede perché la gente è distratta. Una lumaca che passava ogni notte sugli scalini dell’ingresso lasciava al mattino una scia argentata. Non potevi non vederla, eppure qualcuno l’ha calpestata. Giuseppe il calzolaio, ogni volta che vado a salutarlo mi fa vedere una pila di foglietti coi nomi e le date di tutti i morti dell’ultimo mese. Non esce mai dallo sgabuzzino, dove c’è un giardino pieno di aranci, su cui vengono a posarsi le upupe del bosco. Ma lui sa solo fumare al buio e collezionare morti. Io invece, guardando per terra scopro sempre cose preziose. L’altro giorno ho trovato una lettera d’amore che qualcuno aveva accartocciato dopo un litigio, un campanello di bicicletta e lo stemma di una Lancia, di cui ho fatto una spilla per la giacca. Quando torno a casa, mia madre non mi parla, perché si ricorda che mio padre è morto per colpa mia. Sono passati venticinque anni dalla sua morte. Il 16 aprile siamo andati al cimitero ad aprire la bara. Una volta rotta la saldatura, il becchino ha detto: «Venite, è fatto». Di mio padre era rimasto qualche capello, la borsa di pelle con mille lire, un lembo del vestito, lo scavo del ventre, la spina dorsale stopposa come un tronco di palma. Mia madre si è avvicinata alla bara. Non ha pianto, ha solo detto a bassa voce: «Uh, Michelino!»
Di nuovo all’aria aperta, vedo un bruco attraversare la statale. Passa un camion, ma non lo prende. Una moto, una bicicletta, poi una macchina, un’altra: il bruco continua lento, arrivando infine dall’altra parte. Neve sulla montagna, acqua nuova nel torrente. Agli incroci non mi devo girare per vedere chi passa, basta prestare l’orecchio alla direzione del vento. Dalla casa del prete esce la telecronaca della partita dell’Avellino. Poi arriva un tuono senza pioggia, e la sera.
Mia madre prepara una torta, la stessa da cinquant’anni: si chiama “torta luna”. Ero piccolo, aveva appena smesso di piovere. «Vieni», mi aveva detto, «che ti faccio vedere come sorge la luna». Impastato e infornato, il dolce cresceva. Con un occhio al forno e uno alla finestra, man mano che la torta lievitava, la luna usciva da dietro le nuvole. Alla fine, pronto il dolce a centro tavola, la luna splendeva alta. Adesso però, il profumo di questa torta non mi piace. Mia madre non mi parla. Guardandola, mi accorgo che il suo viso somiglia a molti altri visti in giro, spesso alle forme che hanno le nuvole e le pietre. È di fatto incomprensibile la tristezza per le cose che finiscono, considerando che non c’è altra regola nella vita. Tutto nasce in un momento di pienezza. Poi il passo si fa calmo e arriva il silenzio, in cui brillano misteriose tutte le cose.