Il vuoto e la vertigine. La letteratura come medicamento ne ‘Il paradiso degli interstizi’ di Gianfranco Pecchinenda
Ho ricominciato più volte a scrivere queste brevi note, perché Il paradiso degli interstizi (Inknot, 2020) di Gianfranco Pecchinenda è uno di quei rari romanzi in grado di disegnare interrogativi tali da lasciare il recensore di fronte a una concreta difficoltà di restituirne l’esperienza sperimentata nella lettura dell’opera. Un’esperienza che si dilata ed espande, fino a toccare – dal centro di una trama in cui si muovono tre personaggi forti e uno semi-fantasmatico – i margini dello stesso senso del racconto e della letteratura.
Ma andiamo con ordine.
Il paradiso degli interstizi inizia con un evento luttuoso – l’improvvisa scomparsa del ricercatore Giovanni Capuano nel corso di un Consiglio di Dipartimento – per poi ricostruirne la complessa traiettoria esistenziale nell’intreccio con la compagna Alice, l’amico e collega professore ordinario Francesco Calabrese e l’affascinante docente Omar Amalfitano.
La trama del romanzo è una piattaforma dentro cui il lettore viene assorbito, attraverso un sapiente dosaggio di flashforward e flashback, nell’arco di molti anni di vita – esattamente quanti sono necessari al passaggio dallo stato di intraprendenti studenti universitari a quello di affermati docenti per Giovanni e Francesco. Alice è la donna che connette i due: amata e desiderata da entrambi, diventa prima la compagna di Giovanni, con cui ha un figlio (o almeno così pare), e poi di Francesco, con il quale però il legame dura poco e si interrompe con un aborto.
Come nel precedente La faccia, recensito alcuni anni fa proprio su queste colonne, Pecchinenda, professore ordinario di Sociologia dei processi culturali all’Università “Federico II” di Napoli e romanziere, lavora di cesello sul crollo delle strutture e dei meccanismi che, a fatica, sorreggono le nostre identità. Rispetto all’opera precedente, l’autore alza il tiro e non si limita a decostruire gli enigmi dentro cui siamo abissalmente imprigionati quando proviamo a cogliere il senso della realtà. Qui, infatti, c’è in gioco il senso stesso della letteratura.
Il punto di partenza è simile a quello de La faccia. L’autore lo dichiara in esergo al primo capitolo, evocando Il fu Mattia Pascal di Pirandello (solo una delle moltissime “voci” letterarie che serpeggiano in queste pagine): il terrore che il vuoto del non senso inghiotta inevitabilmente le nostre esistenze. Dopo la morte improvvisa di Capuano, il romanzo si dilunga nel raccontare le bassezze e le meschinità del mondo accademico, interessato esclusivamente o quasi a dirimere le questioni pratiche (come dividersi spazi, poteri, compiti, carte del defunto). Il magnifico secondo capitolo si conclude con un brano, che potrebbe a ragione essere interpretato come una potenziale bussola ermeneutica dell’intero romanzo: “con quanta facilità un’esistenza, le sue ambizioni, la complessa rete di parenti, amici, colleghi e conoscenti vari, possa, insieme a un’infinità di oggetti più o meno cari, improvvisamente sparire nel nulla” (p. 22).
La vita di Giovanni Capuano è segnata irrimediabilmente dall’incontro con Alice, dalla loro storia d’amore. Ma anche dalla scoperta, improvvisa e dolorosa, che suo figlio – quello che lui aveva sempre creduto essere il proprio figlio – è in realtà il figlio biologico di un altro. Dopo la rottura con Alice, l’esistenza di Capuano piomba nella vertigine dell’impegno universitario, costruito intorno a massacranti routine di scrittura, pubblicazione, convegni, lezioni, esami. Per evadere da questo circolo Giovanni ricorre alla letteratura, ai suoi romanzi, che gli fruttano persino un adattamento cinematografico, un po’ di ricchezza e molta visibilità. Se il vuoto è la prima istanza metaforica con cui possiamo provare a cogliere la potenza immaginifica di quest’opera, la vertigine è la seconda.
La vertigine si manifesta come smarrimento e perdita, di fronte a un lutto, a un evento inatteso, a una diversa direzione delle nostre esistenze. Sia Giovanni che Francesco avvertono questa sensazione di radicale impotenza di fronte al circuito del caso, all’imponderabilità del destino. Ma soprattutto avvertono il terrore che ogni gesto, ogni fatica, tutti gli anni persi nello studio, nella ricerca, nel tentativo di ordinare razionalmente il mondo nascondono esattamente l’atavico terrore della scomparsa di ogni cosa. Il terrore, semplicemente, di essere inghiottiti dall’oblio. Sin dagli anni universitari, trascorsi sotto il magistero di Amalfitano, i due afferrano che “tutto è destinato a sparire, a cominciare da quel curioso organismo che definiamo ‘io’, per arrivare a tutti gli altri organismi viventi a cui siamo più o meno strettamente legati, a tutto ciò che ci circonda: la società, il mondo, l’universo, la realtà” (pp. 59-60).
Oltre ad assaporare questa sensazione, per entrambi, si affaccia – nelle ore più buie – l’intuizione che il tempo impiegato a cercare caselle e categorie con cui comprendere il mondo (almeno il mondo conoscibile con i propri sforzi) non garantisce alcun premio. A questo proposito, l’autore apre uno spaccato sull’enorme sacrificio richiesto a quanti vogliono affermarsi nell’accademia italiana, quando racconta della giornata-ricordo in memoria di Giovanni: “Cosa ne potevano sapere gli altri colleghi, gli studenti, gli editori, i librai, i parenti stessie tutti coloro che in quel momento riempivano quella sala, delle ore trascorse da quell’uomo in biblioteca a scartabellare pagine e pagine di polverosi volumi, a prendere appunti, a partecipare a convegni, seminari, corsi, viaggi di ricerca all’estero? Cosa ne potevano sapere di gite e vacanze con gli amici sciupate o annullate, pur di poter riuscire a portare a termine una ricerca correlata a un autore da citare; come potevano comprendere, gli altri, le delusioni per il rifiuto opposto dall’editore di turno alla prima stesura presentata per la pubblicazione di un volume; le umiliazioni ricevute dai vecchi baroni, dai professorini impettiti, dagli amici, dalla propria ragazza, anche, per quel suo delirante perfezionismo che – come lui ben sapeva – altro non era se non un modo per combattere tutte le sue dannate incertezze?” (p. 110).
Vana fatica, dunque, come emerge persino nei sogni di Giovanni, allorché il padre gli rinfaccia l’inutilità delle sue ricerche e del suo lavoro. In effetti, concentrarsi esclusivamente sulla ricerca per comprendere il reale sembrerebbe equivalere, ne Il paradiso degli interstizi, ad aver sottavalutato la dimensione fenomenologica dell’esistenza, a non aver sufficientemente dato spazio alle minime, infinitesimali situazioni quotidiane – un caffè, un sorriso, uno sguardo. La fenomenologia esistenziale di Merleau-Ponty insegna che ogni percezione è incarnata: ha a che vedere, in sostanza, con il modo in cui noi percepiamo sempre e comunque attraverso un corpo, le sue caratteristiche e proprietà fisiche. Pensare di comprendere il mondo o forse isolarne frammenti di realtà appare dunque fatica vana per Giovanni e Francesco, qualora si dimentichi che ogni immagine che possiamo richiamare ed elaborare è sempre delimitata dalla limitatezza dei nostri sensi.
Tuttavia, c’è ancora un rimedio, un’alternativa al totale smarrimento di fronte all’insensatezza dell’esistenza. Per Giovanni Capuano questa alternativa è la letteratura. Da buon sociologo delle narrazioni, Pecchinenda riflette nel romanzo – in un poderoso gioco di specchi – la certezza che ogni vita, ogni fatto sociale, ogni dimensione culturale è innanzitutto articolata intorno ai racconti di chi vi prende parte. Se siamo ciò che raccontiamo, ecco che la letteratura diventa medicamento e apertura al possibile, alimento di nuove possibili direzioni. Il gioco di specchi – dicevamo – è la carta magica che l’autore si gioca: non basta un’unica trama, un unico mondo possibile per raccontare la storia di Giovanni Capuano, Francesco Calabrese, Alice e Omar Amalfitano.
Non basta perché dobbiamo fino in fondo capire la sostanza letteraria che, magneticamente, inabissa e avvolge le esistenze di personaggi, autore e lettori: così, mentre leggiamo Il paradiso degli interstizi, già creatura impreziosita da tanti attraversamenti narrativi (Cortazar, Borges, Pirandello, Kafka, Foster Wallace, Bolaño, Goncharov…), ci imbattiamo in alcuni racconti di Giovanni, come L’esame, a sua volta imbevuto degli echi del Gogol de Il cappotto.
La letteratura può mettere un velo, scardinare porte, in fondo può rimediare al male di vivere, alla traumatica certezza della propria irrilevanza nel mondo, può manifestarsi in maniera tanto potente da agire come oscuro processo di formazione del nostro posto nel mondo, “perché a volte le parole rinviano a significati legati non tanto agli oggetti materiali che servono a designare, quanto piuttosto alle storie in cui sono intrecciate e attraverso cui abbiamo imparato, in qualche momento imprecisato della nostra esistenza, a conoscerle” (p. 33). Come il cappotto gogoliano, appunto. I romanzi, le letture, i film, ogni esperienza culturale in fondo serve per illuderci che, in qualche modo, abbia ragione Wittgenstein, nel sostenere “la teoria secondo cui ogni uomo, in sostanza, non sarebbe altro che le storie che si possono raccontare su di sé” (p. 66) – come Alice dice a Francesco a latere di una conversazione (forse “la” conversazione) degli anni universitari.
Ma la letteratura è un medicamento, una consolazione sufficiente? Impossibile offrire una risposta a questo quesito. Tuttavia, possiamo affermare che essa, temporaneamente, consente di allestire un argine, una difesa verso quei mostri insaziabili del vuoto e della vertigine. Tuttavia, questi mostri premono sulla nostra vita e, prima o poi, bisognerà farci i conti. In una lettera indirizzata da Francesco ad Alice (altro infingimento, altra trasposizione sul piano della creazione letteraria), Giovanni trova richiami delle tante conversazioni con l’amico, che – mi sembra – possono essere condensate in un piccolo frammento, laddove, in un raro momento di abbandono, Calabrese confessa alla donna (o a se stesso?) che “le nostre spiegazioni (…), le nostre storie tutte piene di causa-effetto… ci fanno perdere di vista il fatto che siamo esseri stratificati, pieni di piccole crepe, grandi vuoti, interstizi e anche voragini; esseri instabili, precari, inquieti. Incessantemente alla ricerca… di ‘qualcosa di vero’. O almeno di ‘qualcosa’ che ci sembri vero” (p. 48).
Il professore Amalfitano, nume tutelare del terzetto, sembrerebbe essere convinto del potere lenitivo della grande letteratura e consiglia a Giovanni di rifugiarvisi, durante la crisi post-matrimoniale. Leggendo un brano dei Demoni di Dostoevskij, allora, Capuano sembra afferrare un barlume di senso circa il ruolo decisivo che inganno e immaginazione hanno nelle nostre vite (p. 54). Questo è, probabilmente, il lascito intellettuale più marcato che il leggendario personaggio di Omar Amalfitano (piccola preghiera all’autore a riprenderlo per farne il perno di una narrazione più estesa…), fratello del protagonista del racconto La parte di Amalfitano (altri rinvii, finzioni, ibridazioni) di Roberto Bolaño, lascia in eredità ai suoi due “allievi”.
D’altronde, seppure per altre vie, è lo stesso Francesco, roso da un’ansia di capire e incapace di lasciarsi andare – come gli rimprovererà Alice nelle ultime pagine del libro – infine, a rendersi conto che, per vivere, non basta il reale, serve un’eccedenza, qualcosa che scavi uno spiraglio, una presa d’aria, una rimasticazione fantastica dei nostri eventi miseri: “E si ritrovò così a riflettere sul fatto che molto spesso, nella vita, non è tanto importante ciò che ci succede, quanto ciò che immaginiamo che ci succeda. Così come – e qui non poté non pensare alle sue stesse vicissitudini personali – gli avvenimenti centrali della propria esistenza finiscono spesso per essere quelli che non si sono realizzati; o almeno quelli che non si sono realizzati come avevi immaginato da giovane. E che il desiderio, o forse la necessità stessa di fantasticare, risieda proprio in questo bisogno di poter combinare e tenere insieme gli avvenimenti che si sono verificati e quelli che, per un motivo o per un altro, pur non realizzandosi, sono stati tuttavia quantomeno immaginati” (p. 112).
In una delle sue memorabili lezioni, infine, Amalfitano chiarisce ancora meglio questo principio, tessendo le lodi della via di fuga fantastica come unico mezzo per fronteggiare l’assurdità di un mondo dominato dal caso e sempre sull’orlo dell’insignificanza: “L’unica strada che vi posso suggerire, sulla base delle mie tante esperienze, è quella di affidarvi al potere dell’illusione; bisogna avere il coraggio di mentire e la capacità di farlo inconsapevolmente: a questo servono l’arte, la letteratura, il gioco e tutta la straordinaria gamma delle illusioni umane. Compreso l’amore” (p. 120).
Il paradiso degli interstizi, come già La faccia, è anche un magmatico attraversamento del dominio onirico. Anche qui, probabilmente, la grandezza di Pecchinenda sta nel muoversi in un equilibrio sospeso tra il sogno come forma d’esperienza eterodossa e irriducibile al regno del razionale e dell’ordinabile, e il sogno come rifacimento della vita, come ferita “magica” in cui godere dell’illusione di poter dare un finale diverso alle nostre storie. Ecco che allora il sogno diventa un funambolico, ultimo territorio che accomuna l’avventura esistenziale di Francesco e Giovanni – entrambi presagiscono in forma onirica la morte di quest’ultimo. Ma, anche nei nostri sogni, le cose non possiamo indirizzarle come vorremmo e in un mostruoso impasto di desideri repressi, aspirazioni inconsce, idee deformi, passioni mozzate dalla vita, ecco che possono apparire figure rivelatrici della tragedia in cui ci “consumiamo”, come il guardalinee Armando che, appunto in un sogno, dice a Francesco che “il senso dell’esistenza (…) somiglia molto a quello di una partita di calcio giocata su un campo privo di porte” (p. 91).
Tornando all’inizio di questo articolo, se alla fine siamo comunque riusciti a scrivere queste note sul Paradiso degli interstizi, perché allora abbiamo dichiarato di essere rimasti bloccati davanti alla sua potenza letteraria? La risposta chiama in causa il fatto che ogni esperienza di lettura radicalmente disarmante, come questa, purché sia autenticamente centrata sull’ingaggio di una lotta totale con il testo e il suo autore, conduce infine all’esito di rimettere in gioco i propri codici di lettura e di interpretazione.
Allora, il potere più nascosto ma forse più affascinante del testo di Pecchinenda, sta nella capacità di ricordarci che la letteratura è la materia plastica con cui possiamo illuderci meglio e di più, e costruire nuovi ponti, nuove lenti e nuovi territori per muoverci nel tempo e nello spazio. Dunque, anche un recensore può spalancare altri riferimenti letterari per espandere il godimento dell’esperienza di lettura de Il paradiso degli interstizi.
A proposito, ma cosa sono questi interstizi? Sono quelle “piccole cose”, “quel luogo della mente ricco di semplici simboli pieni di significato, in cui gli esseri umani amano soffermarsi per attribuire un senso alla loro esistenza e, soprattutto, per evitare di pensare a ciò che potrebbe far crollare tutti i loro granitici e rassicuranti sistemi logici” (p. 131). Uno di questi interstizi è l’esperienza del caffè. Il caffè al bar è la situazione ideale per rituali d’interazione sociale dal forte potere socializzante ed emotivo. Proprio in questi luoghi speciali gli universitari (docenti e studenti) condividono momenti preziosi di scambi umani e culturali, ma spesso senza accorgersense (c’è una “scena” molto curiosa in cui Pecchinenda descrive sé stesso come quel tale stranamente e ossessivamente interessato a vergare inutili note su fogli d’occasione).
In un bizzarro romanzo giapponese, Finché il caffè è caldo di Toshigazu Kawaguchi si può entrare in una speciale caffetteria, in cui l’avventore, a patto che beva il liquido nero appunto “finché è caldo”, può rivivere i momenti della propria vita in cui ha commesso scelte sbagliate, potendo con un semplice gesto tornare indietro. Nei caffè consumati assieme dai protagonisti del romanzo di Pecchinenda questa opzione non è chiaramente attivabile: anzi, al contrario, soprattutto per gli incontri tra Francesco e Alice, si tratta di far i conti con l’impossibilità di conciliare attese e desideri. Tuttavia, almeno in forma metaforica, Il paradiso degli interstizi somiglia a una “magica” caffetteria letteraria, in cui l’autore, senza cinismo e anzi con molta tolleranza per le sue “creature”, offre a ciascuno di essi possibili vie di fuga illusorie: il sogno, l’amore, la letteratura…
La seconda fonte tra le mille possibili con cui mi sembra che questo magnetico libro possa dialogare è il romanzo L’anatra messicana di James Crumley, autore hardboiled probabilmente lontano dalle passioni letterarie di Pecchinenda, eppure in grado di esprimere una concezione simbolica della letteratura come medicamento dell’uomo singolarmente simile alla sua: “Nel Montana, poi, si è liberi persino dopo la morte (…) I tuoi possono limitarsi ad avvolgerti in una coperta da viaggio e seppellirti in una buca scavata artigianalmente in cortile. E poi rifugiarsi nel bar più vicino e ricordarti raccontandosi delle storie su di te finché quelle storie non sono diventate i figli che non ti sei mai curato di avere”.
Non sarà tanto, non sarà abbastanza: eppure le storie sono quanto ci resta da lasciare a chi verrà, come un piccolo sollievo di fronte al buio che avanza; è per questo che non si può che voler molto bene a questo piccolo capolavoro.
Pingback: Il paradiso degli interstizi – MARIO TIRINO