Artemisia Gentileschi, la ‘pittora’ che sfidò la sua epoca
di Eliana Petrizzi
Prossimamente, al Palazzo Reale di Milano verrà inaugurata la mostra “Le Signore dell’Arte. Storie di donne tra ‘500 e ‘600”: l’arte e le vite di 34 artiste, riscoperte attraverso oltre 150 opere, a testimonianza di un’intensa vitalità creativa, nel racconto di appassionanti storie di donne già moderne al loro tempo. In mostra le artiste più note – tra le quali Artemisia Gentileschi, Sofonisba Anguissola, Lavinia Fontana, Elisabetta Sirani, Giovanna Garzoni – ma anche quelle meno conosciute al grande pubblico, con numerose opere che saranno esposte per la prima volta. Se oggi risulta sentimentale e persino anacronistico parlare di arte al femminile, di certo sono esistite epoche in cui, al contrario, essere una pittrice era segno di scandalosa insubordinazione ai dettami culturali e sociali dell’epoca. Tra le figure più note della classicità, spicca la vicenda di Artemisia Gentileschi, di cui va narrata appunto la vicenda personale, imprescindibile per comprendere la portata del suo lavoro.
Nel 1605, all’età di dodici anni, resta orfana di madre. Unica donna a doversi occupare di una famiglia di soli maschi insieme alla severa nutrice Tuzia, subisce presto le umiliazioni discriminanti di un universo, quello maschile, che pure amava. Artemisia era infatti molto legata al padre, il pittore Orazio Gentileschi, ed era abituata a vivere in una casa che ospitava spesso amici del padre, pittori come lui. Tra questi un giovane Caravaggio, che arriva un giorno in casa Gentileschi, a chiedere in prestito a Orazio un paio di ali che gli serviranno per dipingere un S. Giuseppe, oltre a qualche panneggio da far indossare ai suoi modelli. In quegli anni, Caravaggio era diventato a Roma il dominatore della piazza: colpiva di lui, oltre al carattere virulento e passionale, la tragica precisione del vero che presto lo distinguerà dai grandi classici come Michelangelo e Raffaello.
Quello in cui cresce la giovane Artemisia è un mondo brutale, abitato da figure maschili (il padre e Caravaggio inclusi) che parlano delle donne con una volgarità oscena e arrogante, ma che poi sono capaci di dipingere madonne e sante, o gloriose eroine umanamente sofferenti, piene di una grazia totalmente estranea alla prepotenza con cui invece le donne vengono trattate nella vita ordinaria dell’epoca. Artemisia dimostra uno stupefacente talento per la pittura fin dalla prima giovinezza, a differenza dei fratelli e con grave preoccupazione del padre, che proprio ai figli maschi avrebbe voluto lasciare in eredità il mestiere, in un momento in cui la concorrenza era molto forte. La tentazione di accettare quindi la precoce vocazione della figlia femmina è forte, benché del tutto inammissibile in tempi in cui l’unico destino pensabile per una figlia è quello di diventare moglie e madre.
A sedici anni, Artemisia non solo dipinge, ma ha già un garzone di bottega tutto per sé. La sua concorrente di quegli anni è la pittrice Lavinia Fontana, dalla grazia austera e castigata: l’immagine perfetta delle virtù di castità e pudicizia che la Controriforma pretende dalle donne. Al contrario, quando Artemisia inizia ad autoritrarsi cerca nell’immagine che vede riflessa nello specchio il desiderio che legge nello sguardo degli uomini, insieme ad un’esigenza di femminilità coraggiosa e audace. Di lì a poco però, si verifica l’episodio che segnerà a vita il suo percorso di donna e di artista. Un giorno, il padre chiede a un suo collega – Agostino Tassi detto “Lo smargiasso” – di educare la figlia alla pittura di immagini paesaggistiche e prospettiche. Sulle impalcature su cui i due dipingono, lui le rivolge delle attenzioni; lei, diciannovenne inesperta, ne è colpita, scambiandole per amore. Forse, addirittura credendo a una promessa di matrimonio che lui le rivolge per gabbarla, Artemisia gli regalerà un suo dipinto. All’improvviso un giorno, su quelle stesse impalcature, Agostino la violenterà, rovesciando sul corpo di Artemisia un desiderio a lei sconosciuto, che la devasterà per sempre.
Il processo per stupro che ne seguirà, nel 1612, è forse tra i primi del genere nella storia. Il padre di Artemisia si esporrà sia all’oltraggio subito che all’onta sociale, esponendo simbolicamente il corpo della figlia a una brutale perquisizione pubblica. Le donne, come spesso accade, saranno le prime nemiche della vittima, additata come ragazza disinvolta e libertina, certamente complice del reato che l’ha violata. Il colpevole pagherà solo pochi mesi, continuando in libertà la sua vita da balordo. Il racconto di questa vicenda cruciale è tutto nel dipinto Giuditta che decapita Oloferne, che Artemisia dipinge a soli vent’anni, ispirandosi all’omonima opera di Caravaggio, di qualche anno prima. Se in apparenza i colori e l’uso tagliente della luce sono un chiaro omaggio alla moda caravaggesca di quegli anni, le differenze tra i due dipinti sono però sostanziali.
Nel dipinto di Caravaggio, Giuditta è una nobildonna austera che commette un delitto con distaccata eleganza. Il centro del quadro è un magistrale ritratto d’uomo decapitato, che muore pieno di furia e di disperazione. Nel dipinto di Artemisia, invece, Giuditta è un’eroina appassionata che non sta compiendo un’opera di salvezza divina – come racconta la vicenda biblica – ma una donna che sta vendicando un torto che la riguarda personalmente. Le pieghe degli abiti raccontano una violenta tensione intima, in accordo con i dettami di quello che sarà di lì a poco il pathos barocco. Artemisia dipinge con estrema cura soprattutto il letto, e cioè il luogo primordiale in cui i corpi di un uomo e di una donna si incontrano, e dove troppo spesso le donne soccombono; dove la passione che dovrebbe unire si torce nella distruzione che li separerà. Tutta la scena è concentrata in un primo piano che ricorda la claustrofobia di certi incubi, da cui non è possibile fuggire.
Nel 1612, per intercessione del padre, Artemisia verrà accolta come pittrice di corte a Firenze presso Cosimo De’ Medici: un modo efficace per togliere la figlia da un luogo dove oramai la sua vicenda l’avrebbe marchiata a vita. Vicenda che tuttavia l’accompagna anche a Firenze, suscitando però, curiosità piuttosto che riprovazione e pregiudizio. Intorno a lei c’è un profumo di scandalo che piace alle dame e ai gentiluomini di corte. Artemisia è bella, geniale, schietta e dannata, ma soprattutto infonde nei suoi dipinti il fascino morboso del proibito, insieme a una sensualità disperata. Presso la corte della Granduchessa Cristina di Lorena, madre di Cosimo, le viene chiesto soprattutto di dipingere eroine della mitologia pagana e della storia sacra. Ma, sotto la mano di Artemisia, ecco che quelle eroine subito si trasformano in donne animate da una vigorosa carica di verità umana. Artemisia accetta di dipingere, di fatto, una sorta di autobiografia per immagini, perché sa bene che abitare la pittura non è come abitare la realtà. Nella realtà si può, anzi si deve, fingere; nella pittura, nell’arte in generale, si è onesti e nudi.
La maturità di Artemisia è la storia di una vicenda a lieto fine. Sarà riconosciuta in vita come grande “pittora”, con una sua folta schiera di estimatori, committenti, epigoni e seguaci. Si vizierà con piccole vanità concessele dal lusso guadagnato col suo incessante lavoro. Nel 1622 verrà ritratta da Simon Vouet, che la raffigura ponendo in primo piano la mano che regge la tavolozza, e cioè la mano del dono, del talento artefice di un universo dipinto, colto nell’attimo delicatissimo in cui una vicenda umana diventa arte. È la disfatta dell’ideale classico a favore di una disperata, sanguigna concretezza, nell’invenzione di un barocco femminile contradditorio e bizzarro, fatto di eccessi e di arroganti splendori. Se dovessimo dire in cosa consiste il talento di Artemisia, la sua audace originalità rispetto al tempo in cui visse, sicuramente diremmo la sua invenzione di un nuovo sguardo sul corpo delle donne, che per la prima volta lasciano affiorare proprio nel corpo un’anima in cerca di identità autonoma, e di riscatto sociale. Per tutta la vita, e fino alla morte, avvenuta a Napoli nel 1656, Artemisia terrà fede all’importanza del proprio lavoro, e soprattutto all’eccezionalità della sua storia di donna che non si lasciò mai piegare dalla misoginia del tempo. Nella sua Allegoria della pittura, la pittura è una donna che si curva a voler occupare l’intero spazio della tela, che è di fatto lo spazio di un’esistenza vissuta interamente con e per la pittura. Lo scriverà lei stessa in una lettera: “Non starò più a fastidirlo di queste chiacchiere femenili, ma l’opere sarà quelle che parleranno”.